domenica 25 marzo 2012

Domenica


Negli anni 70, nel quartiere dove sono cresciuto, a Caserta, i rituali domenicali si svolgevano secondo un ritmo musicale consueto. Era un quartiere abitato dal ceto impiegatizio. Figli di contadini, con diploma di scuola media superiore, ora urbanizzati, e impiegati in enti statali. Sarà per formazione culturale, reddito e ambizioni, ma gli abitanti del quartiere si muovevano all'unisono e questa caratteristica era ben evidente, appunto, di domenica. Il ritmo domenicale cominciava con la sveglia collettiva, verso le otto, poi i maschi uscivano per comprare giornale e dolci, spesso facevano una scappata fuori quartiere per lavare la macchina. Poi scendevano le donne e nella tipica formazione «a paranza», a braccetto, mariti e mogli, andavano a messa.
Dopo, in un crescendo di passi e ticchettio di tacchi, si svolgeva una collettiva passeggiata sul Corso. Ritorno a casa, pranzo, raccomandazioni tipiche e diffuse a noi ragazzi: mangia tutto altrimenti niente dolci. Breve pennichella e di nuovo in piedi: i maschi allo stadio o in collegamento radiofonico con Tutto il calcio minuto per minuto — su questo aspetto la canzone di Rita Pavone individuava una precisa dinamica antropologica —, le donne e noi ragazzi davanti al televisore per Domenica in. Fatto sta che di nuovo il quartiere si sintonizzava su una nota sola, finché all'improvviso: fine dei giochi. Si spegneva tutto. Ombre e mestizia riempivano le strade del quartiere. Difficile dimenticare quella sensazione. Il quartiere prima rumoroso e allegro si chiudeva in una specie di ritiro spirituale. Ti sentivi scollegato dal mondo, chiuso nella tua cella monacale. Di sicuro la consapevolezza di questo sentimento della fine mi ha portato, anni dopo, ad apprezzare la lettura del «Sabato del villaggio» fatta da Carmelo Bene, quando dopo un inizio mesto e lento, quasi urlava, inquieto e ansioso, al garzoncello scherzoso di godersi quell'attimo, prima dell'ombra, inevitabile. Passano gli anni e si cresce e si cambia quartiere e città. 
Quando sono arrivato a Roma le domeniche non mi sembravano troppo diverse da quelle casertane. Ma un giorno mi tocca un volo domenicale e prendo il trenino per Fiumicino e sorpresa: è tutto pieno, e non di viaggiatori, ma di ragazzi giovanissimi e chiassosi. Gomme masticate, pantaloni calati, cuffiette e baci appiccicosi, abbracci e risate. Per quale viaggio partono? Non partivano. O forse sì, voglio dire, non andavano in aeroporto, si fermavano due stazioni prima: centro commerciale. Il centro commerciale aperto sette giorni su sette ha rappresentato probabilmente il primo sintomo di un cambio di ritmo domenicale. Ragazzi e ragazze viaggiavano per raggiungere il luogo dello shopping. Non sono sicuro che l'obiettivo fosse comprare, spendere anche di domenica. Il sentimento mi sembrava un altro: prolungare la domenica. Ritrovarsi compatti a marciare fino a tardi nei corridoi dei centri commerciali mi sembrava un modo di spostare in avanti quel sentimento di malinconia e ombrosità che io, leva meridionale del '66, avevo provato anni prima. Al buio delle strade, alla mestizia provinciale e cattolica, si provava a sostituire le luci, le vetrine, le chiacchiere rumorose, e i brand messi in fila, illuminati a dovere, testimoniavano che anche di domenica potevi essere cittadino del mondo, al passo con i tempi. A breve i negozi saranno aperti di domenica, e non solo quelli dei centri commerciali, e i quartieri perderanno quell'aria mesta domenicale, con le ombre allungate e le persone che velocemente defluiscono, fino a scomparire. Bene o male? Ci lagniamo? 
Del resto il cambiamento è in atto da parecchi anni, il quartiere dove abito, ora, a Roma, ospita tipologie di persone diverse per ceto, reddito, ambizioni e desideri, e le sveglie domenicali non avvengono più in sincrono. Le messe domenicali riuniscono poche persone sempre più anziane. Le partite di calcio anticipate e posticipate rompono il rituale domenicale e altri sport, portati dagli immigrati, attirano la mia attenzione: come il cricket che si gioca a Villa Pamphilij. I miei figli passano le ultime ore della domenica online, a commentare il giorno che fra poco spunterà — mia figlia parla via Skype con una sua amica brasiliana e il tempo nella sua stanza subisce una distorsione, va indietro di otto ore. Niente sguardi alle strade del proprio quartiere, ma anzi, un punto di vista sul mondo più vasto e inquieto. Il fatto è che i tempi cambiano e spesso mi ritrovo senza opinioni in materia. Solo una volta mi è capitato di sentire una stonatura nella domenica moderna. A Palermo mi sono ritrovato insonne a osservare una portentosa movida, di sabato. Grida isteriche, orde di persone urlanti, motorini smarmittati, garzoncelli scherzosi tutti alcol e cocaina. Il mattino dopo, domenica appunto, c'era la cosiddetta calma terrificante, quella tipica del dopo sbornia. E tutto il giorno è stata caratterizzato da un silenzio rumoroso. È stato l'unico momento in cui ho provato nostalgia per quel sentimento di malinconia e di spleen che provavo da giovane nel tardo pomeriggio domenicale. Perché al suo posto ho sentito crescere in me un sentimento più estremo, come di inquietudine malata e insomma, solo quella domenica, mi sono chiesto: ma che è successo?

(Antonio Pascale sul Corriere della Sera)

 

 

venerdì 23 marzo 2012

Livorno





Il tuo mare sorveglia nottambuli incalliti.
Atleti del sorriso stanco,
Che più di tutto temono
Il sale della vita.

Ma te nun lo poi sapè.

Di notte a Livorno piove sempre,
Anche se non si vede, lacrime,
Che bagnandomi il viso
Mi dicono che un giorno anch'io
Dovrò morire.

E' notte, sulla terrazza Mascagni
Anche i lampioni dormono
Essa ospita i miei fantasmi
E insieme aspettiamo la pioggia
Che non serve a dimenticare.

E mentre il Libeccio mi spettina l'anima, tetro,
Ho un sorriso.
E respirando le righe del buio
mi sdraio dentro me.

Vista da un cieco, stanotte,
Livorno, è bellissima.


Bobo Rondelli, Livorno nocturne


martedì 20 marzo 2012

Sepolto vivo


«(…) Voglio e pretendo solo che sia fatto quello che ho ben spiegato. Dopo che la mia salma è stata esposta e prima di interrarla, nella bara speciale che mi sono fatto fare per l’occasione dovete metterci due litri d’acqua minerale non gasata, un pacco di freselle, la dentiera, la pila magnum con le pile cariche e il iochitochi per chiamare mio nipote nel caso che mi sveglio dalla morte apparente, come già mi è successo una volta mentre ero sul letto mortuario. Troverete tutto questo già preparato nel mio comodino.
Faccio poi obbligo a mio nipote erede universale, col quale abbiamo già fatto tutte le prove, di rimanere sintonizzato con la mia salma interrata giorno e notte almeno per quarantotto ore.
Se mi sveglio e lo chiamo e lui non risponde gli mando l’anatema e nessuno potrà per questo condannarmi, nemmeno San Giuseppe. E se poi esco vivo dalla bara gli tolgo l’eredità a lui e a San Giuseppe, così avranno più tempo per distrarsi.
Non ho altro da aggiungere se non baci e abbracci, e la speranza di lasciarci il più tardi possibile. Nella bara non dimenticate la dentiera a portata di mano.»

Essendo capace d'intendere e di volere, De Matteis Salvatore, 1992, Sellerio

«se muoro nellinvernata che viene o quella appresso, chiedo la creanza dinterrarmi nella bara colla magliera e le mutande di lana, cappotto, e la sciarpa, a causa dellartilosa deformata. Ma quando le mie ossa sono scavate le potete spogliare e tenerle fresche. Stanno bene nei locali che sono esposto al sole e piene di comodità, con la fontana vicino, i cessi di bisogno dei vivi e la scarica della imonezza. Anche Cuozzo AndoniaMaria, moglie dello scrivente e sottoscrivente, viene con le ossa sue nei loculi, ma se ci pare di tenere troppo caldo come sempre nella vita, può farci fare nei loculi uno o puramente due buchi di areazione. A me mi basta una coperta addosso».


“In fundis. Mi arraccomando le esequie. Non facciamo le solite figure di pezzente.”



 (Victoria Ivanova, Sad farewell)



giovedì 15 marzo 2012

Tema dell'addio



Contare i secondi, i vagoni dell’Eurostar, vederti
scendere dal numero nove, il carrello, il sorriso,
il batticuore, la notizia, la grande notizia.
Questo è avvenuto, nel 1990. E’ avvenuto, certamente
è avvenuto. E prima ancora, il tuffo nel Ticino,
mentre il pallone scompariva. E’ avvenuto.
Abbiamo visto l’aperto e il nascosto di un attimo.
Le fate tornavano negli alloggi popolari, l’uragano
riempiva un cielo allucinato. Ogni cosa era lì,
deserta e piena, per noi che attendiamo.

Non è più dato. Il pianto che si trasformava
in un ridere impazzito, le notti passate
correndo in Via Crescenzago, inseguendo il neon
di un’edicola. Non è più dato. Non è più nostro
il batticuore di aspettare mezzanotte, aspettarla
finché mezzanotte entra nel suo vero tumulto,
nella frenesia di tutte le ore, di tutte le ore.
Non è più dato. Uno solo è il tempo, una sola
la morte, poche le ossessioni, poche
le notti d’amore, pochi i baci, poche le strade
che portano fuori di noi, poche le poesie.

In te si radunano tutte le morti, tutti
i vetri spezzati, le pagine secche, gli squilibri
del pensiero, si radunano in te, colpevole
di tutte le morti, incompiuta e colpevole,
nella veglia di tutte le madri, nella tua
immobile. Si radunano lì, nelle tue
deboli mani. Sono morte le mele di questo mercato,
queste poesie tornano nella loro grammatica,
nella stanza d’albergo, nella baracca
di ciò che non si unisce, anime senza sosta,
labbra invecchiate, scorza strappata al tronco.
Sono morte. Si radunano lì. Hanno sbagliato,
hanno sbagliato l’operazione.

Ci teniamo vicini
all’urlo, mentre passa il dodici
e l’attimo separato
dal suo vortice resta qui, nel cuore
buio dell’estate, nell’annuncio
di una volta sola. Tu
non ci sei. Resta la tua assoluta
voce nella segreteria, questa
morte che non ha luogo.


Milo de Angelis, Tema dell'addio


mercoledì 14 marzo 2012

martedì 13 marzo 2012

Certi verdini


Il primo puzzle rappresentava un paesaggio andino di anonimo spagnolo del diciannovesimo secolo, settecentocinquanta pezzi. Mia madre era l'architetto e il capocantiere, io uno scalpellino. Le mie mansioni erano solo servili: raggruppare in un angolo tutti i pezzi celesti, cercare nella scatola un certo pezzo tribolato, orientare diversamente il coperchio che riproduceva l'immagine. Con didascalico zelo mia madre commentava il proprio operato per rivelarmi il metodo che lo sottendeva: non rimestare caoticamente nella scatola ma scrupolosamente scostare, rivoltare, isolare; suddividere certe classi di pezzi per colorazione o per grana, allogandole in tazze, pentolini, piattini; deporre dolcemente il pezzo nella sua sede senza volervelo incastrare; comporre prima la cornice poi le figure più facili incominciando dai loro contorni infine i cieli ed i prati partendo dalla linea del loro confine; sapere quando smettere di ostinarsi su una determinata zona per aprire un fronte novello; ricordarsi che di norma un pezzo quadrilobato cade in un quadrato centrale di sedici pezzi per lato, alternare lo sguardo negativo allo sguardo positivo, dialetticamente contemperando la ricerca del pieno di cògnito vuoto e del vuoto di cògnito pieno; non fidarsi alla prima compatibilità delle forme, dei colori e delle linee ma scetticamente supporre in via prudenziale una diabolica coincidenza, e in mancanza dell'ultima certezza astenersi.
La scuola del rigore, il rigore di quella scuola...
(…)
Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non per "passare del tempo" - che rimarrebbe comunque una forma di interesse e di giustificazione ab externo - ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. E dunque codesta verità imparai da mia madre: che il momento più idoneo ad incominciare un nuovo puzzle è quando siamo oberati di impegni, nell'urgenza affannosa delle cose serie, delle cose sode: quale trionfo sul mondo, allora, dedicarsi a quella scientifica dilapidazione del tempo! Ma appunto perchè l'inutilità sia perfetta occorre che l'opera si dissolva nel momento stesso in cui si completa e completandosi si reifica: certo chi ne differisce la distruzione lo fa per contemplare ancora un pò il risultato: ma per quanto la contemplazione possa illudere del contrario, essa non è mai disinteressata. Noi infatti sappiamo che la vista del ricomposto dipinto, lungi dal rimanere un'esperienza neutra, inocula nell'esecutore l'impura idea di aver agito a quel fine - la contemplazione, appunto - e non per la devozione al bello-inutile, a quel certo tipo di bello-inutile-metodico di cui si sta qui discorrendo. Eppure - anche di ciò mia madre mi avvertì per ambagi - esistono persone che completato un puzzle lo lasciano giorni e giorni sul tavolo, alla mercè visiva loro e di chiunque altro. E persone ancora più depravate che non lo disfano mai, e che per questo incollano tutti i pezzi su un cartone o una tavola di legno sottile. E persone, infine, che arrivano al punto di appendere a una parete quella cosa tremenda, quell'aberrazione che è un puzzle incollato.
(…)
Di tanta memoria, di tutta la mia memoria, scelgo di portarmi nel nulla quel cortese fruscìo, le screpolature nell'oro delle tavole medioevali, la misteriosa dolcezza di certi verdini.

(Michele Mari, da Tu sanguinosa infanzia)

lunedì 12 marzo 2012

L'isolamento coperto dai libri


Esistono solitudini oceaniche, desertiche, montuose. Per il mio caso evito la parola solitudine, per un sospetto di romanticismo, e preferisco dire isolamento. 

È stata la mia pratica d'infanzia. Intorno avevo la più fitta densità umana d'Europa, Napoli era sotto morso di tarantola e non serviva a niente chiudere finestre. L'insonnia di strilli, voci, suoni non aveva orario. Ma nella stanzetta dei libri, sotto gli spalti e gli scaffali dove c'era il mio letto, si stava in un'ovatta di quiete. Ho saputo da bambino che i libri sono il miglior materiale isolante e li ho amati per questo. Dietro le loro pagine non potevo essere raggiunto. Dovevano strapparmele di mano, perché non sentivo i richiami ch'era pronto a tavola. 
Mi accorsi poi che funzionava anche fuori di lì. Con un libro davanti agli occhi potevo traversare la città come se fosse vuota. Muovevo appena le labbra leggendo, a modo di preghiera, e ascoltavo nitide le sillabe al mio interno, come se fosse muta la città accalcata. Mi portavano dove volevano loro, lontano dal posto e dall'ora. Mi hanno aiutato a staccarmi da tutto. Un marinaio ha bisogno di una barca, un alpinista di cime, un monaco si arrocca nel suo eremo. Io mi sono procurato la distanza con righe di vari alfabeti. Mi sono trovato al lavoro dentro grandi officine, al chiasso delle macchine utensili e anche lì il distacco funzionava, con dei versi che ripetevo a mente. Nei turni al martello pneumatico in cantiere mi bastava un pensiero, un ricordo per chiudermi dentro. Ero diventato uno specialista. Ho abitato in un piccolo alloggio con altri otto operai e lì il libro diventava mansarda, attico, suite. Ho sospeso gli isolamenti nel decennio 70. 
Nei miei vent' anni ho fatto parte dell' ultima generazione rivoluzionaria del 1900, secolo delle rivoluzioni. Correvano quegli anni, quell'ordine del giorno in giro per il mondo e io ero uno dei suoi minuti secondi. Era il tempo di un vasto pronome "noi", nessun posto e ragione per l' isolamento. Dice un proverbio russo: "Tagliano il bosco, volano le schegge". Mi riconosco in uno dei frammenti. 
Quando si sciolse la comunità nella quale ho avuto parte, diritto e ricordo, sono tornato a separarmi. Ho usato i libri come mio imballaggio. Andrebbero trattati con maggiore riguardo. Oggi sfoglio ingiallite le pagine che hanno la mia età, per effetto di degenerazione del polimero chiamato lignina. Le costole che uniscono le pagine hanno allentato la presa. Succede pure a me. Mi fa contento essere stato in loro buona compagnia per la durata degli isolamenti, ma è facile augurarne, a chi legge, di migliori.

Erri De Luca, da La Repubblica

sabato 3 marzo 2012