giovedì 28 febbraio 2013

mercoledì 27 febbraio 2013

Cugini



Una storia



Però posso raccontarvi un'ultima storia, prima di lasciarvi, e sono sicuro che questa non vi deluderà, e magari vi farà anche ridere. Si tratta di una storia molto vecchia, che in tanti hanno raccontato in tanti modi diversi, anche se sotto sotto è rimasta sempre uguale: solo che voi siete piccoli, e molto probabilmente non la conoscete ancora. E' la storia di un uomo infelice, che aveva una vite d'oro nell'ombelico e non riusciva a liberarsene. Era andato da dottori, meccanici, carrozzieri, chirurghi, orafi, ferramenta e fattucchiere, in tutto il mondo, nella speranza che qualcuno di loro riuscisse a togliere quella vite: nulla, nessuno era mai riuscito anche solo a smuoverla di un millimetro. Ma l'uomo non si era arreso, e aveva continuato a girare il mondo, ostinato, alla ricerca di qualcuno che riuscisse a togliergli quella vite d'oro dall'ombelico. Finché, un giorno, si recò dall'Imperatore del Giappone - che, come spesso accade in quel saggio paese, era un bambino. L'uomo gli mostrò la vite e, a gesti, poiché non sapeva una parola di giapponese, gli fece capire qual era il suo problema. L'Imperatore-bambino guardò la vite, sorrise, poi si girò lentamente e si mise a frugare in una grande scatola d'avorio che teneva nascosta dietro al trono, finché ne cavò un minuscolo cacciavite d'oro, talmente piccolo che sembrava uno spillo.
Lo mostrò all'uomo e, sempre sorridendo, pronunciò nella sua lingua una frase incomprensibile, dal suono però meraviglioso, come una manciata di campanelle d'argento lasciate cadere su un cuscino di piume. L'uomo, che non aveva capito nulla, annuì, e l'Imperatore allora estrasse dalla sua scatola un drappo di seta viola e lo stese sul pavimento, con molta cura. Quando ebbe eliminato anche la più piccola piega vi fece inginocchiare l'uomo, vi si inginocchiò a sua volta e si mise al lavoro.
Pareva veramente impossibile che un cacciavite così microscopico potesse svitare una vite così grossa, ma la vite cominciò a girare senza fatica, e, girando, a uscire dall'ombelico: un giro, due giri, tre giri, la vite uscì sempre di più, finché fu completamente fuori, e l'Imperatore-bambino la mostrò all'uomo tenendola tra le dita. L'uomo allora si guardò la pancia e sbalordì: per la prima volta la vide normale, liscia e senza viti come quella di tutti gli altri. Era libero: la sua tenacia era stata premiata, la maledizione che lo aveva accompagnato per tutta la vita era finita. Balzò in piedi, pazzo di felicità, e gli cadde il culo per terra.
 

(Sandro Veronesi, da La forza del passato)








Intermezzo




lunedì 25 febbraio 2013

Alla mia nazione



Alla mia nazione

Non popolo arabo, non popolo balcanico, non popolo antico
ma nazione vivente, ma nazione europea:
e cosa sei? Terra di infanti, affamati, corrotti,
governanti impiegati di agrari, prefetti codini,
avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi,
funzionari liberali carogne come gli zii bigotti,
una caserma, un seminario, una spiaggia libera, un casino!
Milioni di piccoli borghesi come milioni di porci
pascolano sospingendosi sotto gli illesi palazzotti,
tra case coloniali scrostate ormai come chiese.
Proprio perché tu sei esistita, ora non esisti,
proprio perché fosti cosciente, sei incosciente.
E solo perché sei cattolica, non puoi pensare
che il tuo male è tutto male: colpa di ogni male.
Sprofonda in questo tuo bel mare, libera il mondo.


Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, 1961

  






 

Razza in estinzione


La decadenza che subiamo è uno scivolo che va giù piano piano/ È una nuova esperienza che ti toglie qualsiasi entusiasmo/e alla lunga modifica il tuo metabolismo.
Siamo lì fermi malgrado la grave emergenza/ come uomini al minimo storico di coscienza.

E pensare che basterebbe pochissimo. 
Basterebbe spostare a stacco la nostra angolazione visiva. Guardare le cose come fosse la prima volta. Lasciare fuori campo tutto il conformismo di cui è permeata la nostra esistenza. Dubitare delle risposte già pronte. Dubitare dei nostri pensieri fermi, sicuri, inamovibili. Dubitare delle nostre convinzioni presuntuose e saccenti. Basterebbe smettere di sentirsi sempre delle brave persone. Smettere di sentirsi vittime delle madri, dei padri, dei figli. Smascherare, smascherare tutto: smascherare l’ amore, il riso, il pianto, il cuore, il cervello. Smascherare la nostra falsa coscienza individuale.
Subito. Qui e ora.
Sì, basterebbe pochissimo. 
Non è poi così difficile. Basterebbe smettere di piagnucolare, criticare, fare il tifo e leggere i giornali. 
Essere certi solo di ciò che noi viviamo direttamente. Rendersi conto che anche l’ uomo più mediocre può diventare geniale se guarda il mondo con i suoi occhi. Basterebbe smascherare qualsiasi falsa partecipazione. Smettere di credere che l’ unico obiettivo sia il miglioramento delle nostre condizioni economiche perché la vera posta in gioco... è la nostra vita. 
Basterebbe smettere di sentirsi vittime del denaro, del lavoro, del destino e persino del potere, perché anche i cattivi governi sono la conseguenza naturale della stupidità degli uomini. Basterebbe rifiutare, rifiutare la libertà di calpestare gli altri, ma anche la finta uguaglianza. Smascherare la nostra bontà isterica. Smascherare la nostra falsa coscienza sociale.
Subito. Qui e ora.
Basterebbe pochissimo. Basterebbe capire che un uomo non può essere veramente vitale se non si sente parte di qualcosa. Basterebbe abbandonare il nostro smisurato bisogno di affermazione, abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trovare finalmente l’ audacia di frequentare il futuro con gioia.
Perché la spinta utopistica non è mai accorata o piangente. La spinta utopistica non ha memoria e non si cura di dolorose attese.
La spinta utopistica è subito. Qui e ora.

(Giorgio Gaber, Una nuova coscienza, da Un’idiozia conquistata a fatica)





venerdì 22 febbraio 2013

Curve





Gli onori di casa


Una tipica idealizzazione, che dovrebbe essere annoverata tra le patologie, e chiamarsi sindrome del viaggiatore. Improvvisamente arrivi in un posto e ti sembra che lì vivresti in perfetta calma e felicità. Ma non è vero. Nel bagaglio di ciascuno di noi c’è sempre un carico completo di manie, traumi, frustrazioni e complessi insuperabili, che in breve tempo, anche se ci trovassimo nel paradiso terrestre, quello della Genesi, si estenderebbe fino a riempire tutto lo spazio disponibile e a trasformarlo in un posto insopportabile come quello che abbiamo lasciato poche ore prima.


 Avevo detto esattamente quello che si aspettava da me, per questo le mie parole erano state accolte con tanto entusiasmo. È sempre così. L’ amore e la stima che gli altri ti dimostrano dipende dalla distanza tra ciò che fai e ciò che gli altri si aspettano da te. Non deve essere mai troppo grande. Brindai con il mio collega alle donne forti, agli uomini onesti, agli animali liberi, ai bambini felici, a tutte le utopie che solo di tanto in tanto, e per istanti fugaci, diventano realtà.




mercoledì 20 febbraio 2013

Anniversari / 2




Kurt Cobain  (Aberdeen, 20 febbraio 1967 – Seattle, 5 aprile 1994)



martedì 19 febbraio 2013

Essere governato


Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, recintato, indottrinato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, ad ogni azione, ad ogni transazione, ad ogni movimento, annotato, registrato, censito, tariffato, timbrato, squadrato, postillato, ammonito, quotato, collettato, patentato, licenziato, autorizzato, impedito, riformato, raddrizzato, corretto. Vuol dire essere tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato, e, alla minima resistenza, alla prima parola di lamento, represso, emendato, vilipeso, vessato, braccato, tartassato, accoppato, disarmato, ammanettato, imprigionato, fucilato, mitragliato, giudicato, condannato, deportato, sacrificato, venduto, tradito, e per giunta schernito, dileggiato, ingiuriato, disonorato, tutto con il pretesto della pubblica utilità e in nome dell'interesse generale.

(Pierre-Joseph Proudhon  da Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, 1851)

  

 

 

lunedì 18 febbraio 2013

Madri



Sulle panchine, aggruppate in fitti conversari, le madri: la loro vocazione a completarsi l’una nell’altra ti turba, tu che associ l’idea di madre a quella di unicità, e che non sai concepire benevolenza che non sia interna ai confini domestici. A ognuno la sua sola e fatal genitrice: e invece in quei giardini scopri perplesso che possono presentarsi anche in tal forma, le madri, come sociabili insetti. Sovente ti interessano più delle loro creature, così le bordeggi con la tua bicicletta per spiarle da presso. Lavorano a maglia, leggono una rivista dal salgariano nome di "Rakam", tengono, orrore, tengono i calcagni fuori delle scarpe, richiamano un bambino per sfilargli un golfetto. Il loro scalcagnato chiacchiericcio ti nausea, però devi ammettere che senza quella presenza i giardinetti sarebbero un luogo selvaggio: ingrumate l’una con l’altra come anelli di lombrico, le mamme rappresentano una rassicurante garanzia d’ordine e di legalità: davanti a loro nessun manipolo di violenti oserebbe farti cadere dalla bicicletta per saltare a piedi uniti sui raggi delle tue povere ruote irreparabilmente deformandoli, nessun ladro ti sviterebbe via il coperchio del tuo campanello mentre i complici ti tengono fermo, nessun pazzo ti sbrofferebbe addosso l’acqua a ciò ingurgitata dalla fontanella e a ciò trattenuta con intollerabile gargarismo nelle guane rigonfie esplosive… E tuttavia proprio per questa santa tutela le vorresti più austere, quelle mamme, più solennemente comprese della propria sacralità; le vorresti tremende come le Antiche Madri...

Michele Mari, Tu, sanguinosa infanzia, Einaudi



domenica 17 febbraio 2013

Giornata Nazionale del Gatto



Il 17 febbraio è la Giornata Nazionale del Gatto




Gattino    (maschio, nero, 3 anni)
Stella      (femmina, tigrata, 2 anni)




 

giovedì 14 febbraio 2013

Valentine's


In the scarlet light of Valentine's     our paper hearts are blind


 



Anniversari



Tim Buckley, 14 febbraio 1947 /  29 giugno 1975

 “Tim Buckley fu per il canto ciò che Hendrix fu per la chitarra, Cecil Taylor per il piano
e John Coltrane per il sassofono” 
(Lee Underwood, uno dei suoi collaboratori)


And he walked away from my fleeting house...


domenica 10 febbraio 2013

Le vent nous portera



Chiese a Marco Kublai:– Tu che esplori intorno e vedi i segni, saprai dirmi verso quali di questi futuri ci spingono i venti propizi.
- Per questi porti non saprei tracciare la rotta sulla carta né fissare la data dell’approdo. Alle volte mi basta uno scorcio che s’apre nel bel mezzo d’un paesaggio incongruo, un affiorare di luci nella nebbia, il dialogo di due passanti che s’incontrano nel viavai, per pensare che partendo di lí metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, d’istanti separati da intervalli, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie. Se ti dico che la città cui tende il mio viaggio è discontinua nello spazio e nel tempo, ora piú rada ora piú densa, tu non devi credere che si possa smettere di cercarla. Forse mentre noi parliamo sta affiorando sparsa entro i confini del tuo impero; puoi rintracciarla, ma a quel modo che t’ho detto.
Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte della città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni:
Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.
Dice: – Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre piú stretta, ci risucchia la corrente.
E Polo: – L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo piú. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

(Calvino, Le città invisibili)


sabato 9 febbraio 2013

Bobo / Berto



Dietro Bobo mi nascondo, ma mi porto dentro Berto, zio di mio padre, fratello di mio nonno, del quale porto il nome che io, secondogenito, ho avuto per tradizione. Emiliano contadino, scapolo, mezzo scemo del villaggio, uomo mite e buono, sgonfiatore di damigiane, sempre in mezzo a risse e puttane, ma una era la sua morosa preferita, la Caterina, una donna tonda e ubriacona che lui dal paese, gonfio di vino, caricava sulle spalle per portarla nella stalla, e quando nel tragitto lei gli diceva “Berto ho da pisciare!” lui neanche si fermava e così le rispondeva “Piscia pure, basta che non caghi”. E così con questa precisazione lei gli lasciava sulla giacca il suo odore e il suo calore come un vino, che dal consumatore ritorna al produttore, come una gatta a segnare il suo territorio animale. Mio nonno Giuseppe, suo fratello, era tornato dall’America, dove era andato a far fortuna dieci anni giù in miniera (per morire un anno dopo il suo ritorno, di silicosi come premio) per comprare un po’ di terra ed un mulino e non aver bisogno di nessuno, specie della tessera del fascio per dover mangiare, perché il mulino da mangiar ne dava. L’Emilia nell’Appennino è terra dura, in salita, piena di sassi e forgiava uomini rozzi e grossi, e poi con la guerra fu ancora più dura perché lì passava la cosiddetta Linea gotica. I tedeschi in ritirata come bestie impazzite rastrellavano e ammazzavano famiglie intere, tra cui parte della mia. 
E così toccò anche a zio Berto, che col mitra puntato obbligarono a caricar sacchi e roba sui loro mezzi, lui mentre caricava con la rabbia, forse nascondendo la paura, così mugugnava e bestemmiava…: “Dio porc di un Dio boia! Catvengn un cànker in bocca, boia d’un Dio lader…” Non finì il calvario, prima lo fucilarono.

E così lo voglio ricordare come uno che bestemmiava, perché la vita era troppo ingiusta e dura e che forse quel giorno s’era alzato pure male e non aveva voglia di arrivare a sera. Quasi indifferente persino agli assassini, così, magari a non voler dar loro soddisfazione, chissà, a volerli ringraziare di liberarlo da una vita di letame e mosche e zappar nel sole, contro un Dio a cui neanche credeva ma che l’aveva messo lì. 

E se Dio c’è, certo lo perdona, e magari gli chiede pure scusa. 
E così dietro Bobo mi nascondo, ma dentro porto Berto. E quando mi dicono di stare coi più forti e i loro culi dover leccare, e sedermi alle loro cerimonie di vuote parole, io vedo facce che bramano potere, vedo le stesse, quelle che dan l’ordine di sparare. E allora sento in me una voce che dice “a me ciam Bert! Bert Rundell” e comincio a bestemmiare! “Dio porc di un Dio boia! Catvengn un cànker in bocca, boia d’un Dio lader…!!!”



venerdì 8 febbraio 2013

martedì 5 febbraio 2013

Slanted & Enchanted



I was dressed for success 
But success it never comes 



And I'm the only one who laughs
At your jokes when they are so bad
And your jokes are always bad





lunedì 4 febbraio 2013

Tashiro-jima & Fukuoka, Japan





Tashiro-jima probabilmente è l’unico posto al mondo dove ci sono più felini che persone. Meglio conosciuta come “l’isola dei gatti”, questo lembo di terra conta circa 100 residenti (in maggioranza anziani) e centinaia, centinaia di gatti.  I pescatori sono convinti, infatti, che nutrire i gatti porti loro fortuna e salute, una credenza che continua ancora oggi.  Oggi nell’isola si contano almeno 10 santuari, oltre a 51 statue raffiguranti mici e molti edifici a forma di gatto, con tanto di “orecchie”. I felini, dal canto loro, sono talmente abituati al contatto con gli uomini, che seguono sempre i turisti, accompagnandoli mentre visitano l’isola.

Fukuoka è una città che si trova nell'isola di Kyushu; qui una colonia di gatti vive in simbiosi con la popolazione locale, accettata, nutrita e coccolata, tanto da essere stata ribattezzata l’isola dei gatti. I pescatori locali danno loro da mangiare e i mici sono liberi di vagare sull'isola, per le strade, i cantieri, i portici e le case.

 

 

 

Lettera




Querida Bats,
non è solo coraggio, bisogna avere radici come sabbia del deserto mossa dal vento dell’imperscrutabile, e un’anima colma a tal punto di una disperazione tale da rendere automatica la simbiosi coi disperati del mondo, l’unica patria a cui mi sono sentito veramente di appartenere.
Ma non è necessario accendersi la pipa con calma, e andare a sedersi dinnanzi ai carri armati israeliani, per esprimere il coraggio dei propri valori. Non è necessario essere pronti a sacrificare se stessi, subito, adesso, l’intera propria vita per considerarsi coerenti coi propri proponimenti.
C’è tutto un microcosmo di sofferenza nelle nostre città così ben imbellettate, un micro che in realtà è macroscopica ingiustizia.    
Quegli stessi uomini-tonno, quando riescono a sbarcare e a disperdersi sulla terraferma, rimangono pur sempre pesci fuor d’acqua. E poco dopo magari li si ritrova agli angoli delle strade, a vendere la loro paccottiglia e i cd pirata per sopravvivere, per non venire a patti con criminalità e spaccio, come i miei amici senegalesi, venditori ambulanti con due lauree alle spalle conseguite nella migliore università di Dakar.
Richiedono dignità, non carità.
E magari amicizia.
C’è tutta una subcultura dominante e omologante, (una vera peste bubbonica, ci vorrebbe, per svuotare tutta questa umanità disumanizzante) di razzismi, edonismo, individualismo esasperato al punto da considerare zerbini le lecite richieste di diritti civili, a tal punto consolidato da abituarci alla prevaricazione sociale.
A questi carri armati di bigottismo e perbenismo fascista, bisognerebbe saper rispondere giorno per giorno.
Non bisogna lasciar passare niente.
Che sia un risolino di scherno bisbigliato su di un mezzo pubblico, che cela dietro denti ben curati la carie delle svastiche, una usurpazione fatta sul posto di lavoro di cui siamo testimoni, una violenza verbale ai danni di un miserabile per strada.
Ribellarsi, non retrocedere di un passo, ora sì con coraggio, osare, anche a costo di apparire pazzi, maniacali e utopici, vecchi tromboni già a trent’ anni, a costo di pagarne le conseguenze da soli.
Semplici comportamenti, coerenti con se stessi, possono essere rivoluzionari, “cambiare se stessi e per osmosi cambierà anche il mondo!”, mi ripete ancora adesso da compianto, Tiziano Terzani.
Consumare meno, è la prima forma di ribellione a quel meccanismo di moderno fascismo che ci vuole ingranaggi dediti al consumo di beni per lo più futili (caxxo, a me è due settimane che mi hanno tagliato il gas, vabbe io sono patologico, ora cucino col vapore).
Cercare la propria presunzione di guerrilla personale, di rivoluzione, che sia il volontariato un mese all’anno in Africa, o un giorno alla settimana all’ospedale dietro casa, o visitando l’anziana in attesa della morte, l’extracomunitario gettato sul marciapiede. Che ripeto innanzitutto ha bisogno di un sorriso, prima dell’acquisto della sua paccottiglia.
Invece sono stanco Bats, tremendamente esausto.
Di scorgere dalla visuale del mio angolo di mondo fantomatici personaggi che si dicono di sinistra, e spendono tante belle parole sui loro blog, e poi li ritrovi negli stessi posti fighetti frequentati dai primi fans berlusconiani, e non possono fare a meno di bere cocacola perché è buona, anche se sanno benissimo che in Colombia la Coca Cola Company fa sterminio di sindacalisti, e in India prosciuga di acqua potabile interi villaggi. Che ad agosto vanno una settimana a stendersi su spiagge esotiche, dove sono serviti e riveriti come sovrani (forse per compensare la loro vita occidentale di servi) da schiavi locali, ben consci che oltre il recinto sorvegliato del villaggio turistico o dell’albergo di lusso la gente vive con meno di due euri al giorno, uno tsunami magari ha fatto strage d’innocenti, una guerra impazza (Sharm el Sheik, ragazzi l’Egitto confina con Gaza) e poi  magari si sorprende se qualcuno gli lascia sotto l’ombrellone oltre l’asciugami stirato e un rinfresco, una bella bomba travestita da vendetta.
Che Terzani l’hanno letto ma in pratica sono più emuli dell’ Oriana. Che alle manifestazioni per la pace ci vanno perché è di tendenza, e insomma, a qualche gruppo bisogna pure appartenere.
Che la loro indignazione dura giusto il tempo di 5 righe in un post, poi via si cambia argomento.
Che insomma la coerenza fra il dire e il fare è totalmente priva di sostanza.
Perché è faticoso, e poco conveniente.
Che è così vigliacco da non prendere posizione coi fatti su quegli ideali di cui si fa ventaglio, anche a rischio di perdere il 90% degli amici, e ritrovarsi poi solo, a sbuffare fumo da questa mia pipa affacciato sul davanzale di un minilocale al quarto piano di una città che è in realtà è un deserto e sotto non si scorge quasi più nulla di umano.
ton Vik.

Lettera di Vittorio Arrigoni ad un’amica di Berlino

Vittorio Arrigoni  (Besana in Brianza, 4 febbraio 1975 – Gaza, 15 aprile 2011)