lunedì 30 marzo 2015

Housekeeping



Per me allora era fonte sia di terrore che di conforto il fatto di sapere che spesso sembravo invisibile o, per essere precisi, il fatto di esistere in modo incompleto e minimo. Mi sembrava di non avere impatto sul mondo, e di avere in cambio il privilegio di poterlo osservare a sua insaputa. Ma la mia allusione a questa sensazione di spettrale inconsistenza mi sembrò molto particolare e il sudore incominciò a coprirmi tutto il corpo, dichiarandomi immediatamente colpevole di patente corporeità.

Marilynne Robinson, Padrona di casa



giovedì 26 marzo 2015

Memoria




Quando si comincia a dimenticare le cose – non mi riferisco all’Alzheimer, ma solo alle prevedibili conseguenze dell’età – si può reagire in vari modi. Ci si può mettere d’impegno e cercare di costringere la memoria a cacciare fuori il nome di quel conoscente, di quel fiore, quella stazione ferroviaria, quell’astronauta… Oppure si può ammettere la propria défaillance e prendere misure pratiche al riguardo, utilizzando testi di consultazione e internet. O piú semplicemente, si può lasciar perdere – infischiarsene di ricordare – e scoprire, a volte, che l’elemento smarrito riaffiora magari a distanza di un’ora o di un giorno, spesso nel corso di quelle interminabili notti insonni che la vecchiaia infligge. È una cosa che impariamo tutti, tutti quelli di noi che dimenticano, intendo.
Ma impariamo anche qualcos’altro, e cioè che al nostro cervello non piace che gli si attribuisca un ruolo fisso. Proprio quando crediamo che sia tutta una questione di decrescita, di sottrazioni e divisioni, ecco che la nostra mente, la nostra memoria, possono sorprenderci. Quasi a dirci: Non pensare di poter fare conto su un rassicurante processo di graduale declino – la vita è molto piú complicata di cosí. E allora il cervello si mette a lanciarti addosso brandelli di cose, perfino a sbrogliare certi ben noti grovigli della memoria. E, con mio grande sgomento, è proprio questo che mi stava capitando.


Julian Barnes, Il senso di una fine  




martedì 24 marzo 2015

Ciucciuvettole & co. - 4









Invecchiare




La maggior parte di noi rimasti non ha avuto nulla in contrario con l’idea di invecchiare. Sempre meglio dell’alternativa, secondo me. No, voglio dire un’altra cosa. Che quando hai vent’anni, pur essendo confuso e dubbioso sulle tue mire e aspirazioni, hai comunque forte il senso di cosa sia la vita e di cosa tu sia o possa diventare, in quella vita. Dopo… beh, dopo ci sono piú incertezze, piú sovrapposizioni, marce indietro, falsi ricordi. Da giovane sei in grado di ricordarti la tua breve esistenza tutta intera. Piú tardi la memoria si riempie di toppe e brandelli. È un po’ come la scatola nera degli aerei, che registra quel che accade in caso di incidente. Se non succede nulla, il nastro si cancella da sé. Perciò, se davvero precipiti, è chiaro perché l’hai fatto; ma se non vai giú, allora il giornale di bordo del tuo viaggio si fa assai meno limpido.
Oppure, per metterla in un altro modo. Qualcuno una volta ha detto che i suoi periodi storici preferiti erano quelli in cui tutto precipita, perché significano la nascita imminente di qualcosa di nuovo. Ha senso questa teoria se la applichiamo alle vite dei singoli individui? Morire quando sta per nascere qualcosa di nuovo, anche se la novità in questione riguarda proprio noi? Perché, esattamente come ogni cambiamento storico o politico prima o poi delude, cosí succede con il diventare adulti. Con la vita. Certe volte penso che lo scopo dell’esistenza sia quello di riconciliarci, per sfinimento, con la sua perdita finale, dimostrandoci che, indipendentemente dal tempo che ci vorrà, la vita non è affatto all’altezza della propria fama.

Julian Barnes, Il senso di una fine 




#Salva un agnello







domenica 22 marzo 2015

Ops







Briciole



Quando il gatto ebbe terminato le sue effusioni, mi sentivo molto meglio. Il mondo offriva ancora delle possibilità e delle amicizie che non potevo trascurare. Il gatto, adesso, mi si strofinava contro il viso facendo le fusa. Cercai di imitare il suo ron ron e tutti e due ci divertimmo un mondo a chi faceva le fusa più forte. Cercai le briciole della torta in fondo alla tasca e gliele diedi. Mostrò di gradirle e si appoggiò contro il mio naso a coda dritta. Mi mordicchiò l’orecchio. Insomma, la vita valeva di nuovo la pena di essere vissuta. Cinque minuti dopo [...] mi diressi verso casa, le mani in tasca e zufolando, il gatto alle calcagna. Ho sempre pensato che è meglio avere con sé qualche briciola di torta, nella vita, se si vuole essere amati in maniera veramente disinteressata.


Romain Gary, La promessa dell’alba



lunedì 16 marzo 2015

Le cose mute


Niente, è che a me piacciono da sempre le cose mute,
quando l’io zittisce
e si alza il volume della voce
non solo degli uccelli
ma anche del silenzio dell’armadio
e del tavolo
della lampada e del letto.
Allora niente,
vivo in una nuvola di luce
dove tutto rabbrividisce
e fa parola, allora bevo
all’orlo del mondo
alla sua fontana

Chandra Livia Candiani

 Alle amiche e agli amici, al mio Maestro che ha 2557 anni, a chi amo, a chi mi ama, 
ai monaci della foresta, agli indifferenti e agli spaventati dell’amore e dell’amicizia, 
ai vivi, ai morti, e ai mai nati, ai sopravvissuti, a tutti gli oggetti del lavoro umano, 
tavoli, sedie e letti, e pane e vino, e orti, e a tutti i cari, furiosi o delicati, animali, 
quelli che hanno vissuto con me e quelli appena intravisti, quelli che mi hanno 
azzannato e graffiato e quelli che mi hanno accarezzato e fatto ‘muso-muso’, 
quelli che ho mangiato, quelli che lavorano, agli alberi vecchi e giovani, 
solitari e socievoli, al fondo del mare, alle onde una a una, ai granelli di sabbia, 
alle nuvole, alle montagne, ai sassi, alle conchiglie, ai fiumi, alla terra terra, 
ai temporali, alla grandine, alle pozzanghere, all’erba, al ghiaccio, ai tuoni, ai fiori, 
alle mani e a tutto il corpo, al vento, ai vulcani, ai laghi, alla nebbia, 
agli abbracci e alle parole, ai deserti, alle steppe, ai frutti e alle verdure, 
alle foreste, ai fulmini, a tutte le facce del sole, agli  astri, al cielo che arriva 
fino a terra, alla pioggia, alla prediletta neve, alla luna di cui porto il nome, 
alla notte, alla luce, all’universo che non finisce, alla voce del silenzio, 
al senza nome, alla divina compagnia, grazie e grazie





Potere della musica






giovedì 12 marzo 2015

Paesi civili




Non di questo presente




Non di questo presente ora bisogna
vivere - ma in esso sì: non c'è modo,
pare, d'averne un altro, non c'è chiodo
che scacci questo chiodo. Nè a chi sogna

va meglio, che le più volte si infogna
a figurarlo, e fa più groppi al nodo
se cerca di disfarlo (sta nel todo
che si crede nel nada, sempre) o agogna,

ma con che lama? troncarlo. La mente
infortunata non ha altra fortuna,
dunque, che nel pensiero? Certo a niente

più la mia si consola che se in una
deposizione o un offertorio gente
dispersa solennemente s'aduna.

Giovanni Raboni



domenica 8 marzo 2015

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Blues away



Oh, I just came to chase
The blues away
For a while







sabato 7 marzo 2015

Vibrazione



Non siamo mai del tutto silenziosi. Anche nei sogni possiamo percepire in certi momenti una specie di ronzio di un alveare di api, di insistenti zanzare in altri. Un brusio di insetto che giustifica da solo il fatto che, nei tempi aurorali della cultura greca, l'anima sia stata designata con il nome di un insetto, «psiche», farfalla. Un insetto che è anche simbolo di libertà. Non canta la farfalla, come si sa, nè emette un suono particolare; ma una farfalla non è mai quieta, le vibra il corpo delicato, le vibrano soprattutto le ali. E questa vibrazione produce un lieve suono inconfondibile, misterioso e tenace, un filo di seta che non si rompe e che sembra essere il riflesso di uno sconosciuto, inudibile suono del mondo intero, del cosmo che vibra sempre. Una vibrazione iniziale, del prima e del dopo, sembra condensarsi nel palpitare tenace del cuore.

Maria Zambrano


mercoledì 4 marzo 2015

Pace






Question



Esplodere o implodere - disse Qfwfq - questo è il problema: se sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola. Sottrarsi, scomparire, nient'altro; trattenere dentro di sè ogni bagliore, ogni raggio, ogni sfogo, e soffocando nel profondo dell'anima i conflitti che l'agitano scompostamente, dar loro pace, occultarsi, cancellarsi: forse risvegliarsi altrove, diverso. Diverso... Come diverso? Il problema: esplodere o implodere tornerebbe a ripresentarsi? Assorbito dal vortice di questa galassia, riaffacciarsi su altri tempi e altri cieli? Qui sprofondare nel freddo silenzio, là esprimersi in urli fiammeggianti d'un altro linguaggio? Qui assorbire il male e il bene come una spugna nell'ombra, là sgorgare come uno zampillo abbagliante, spargersi, spendersi, perdersi? A che pro allora il ciclo tornerebbe a ripetersi? Non so nulla, non voglio sapere, non voglio pensarci: ora, qui, la mia scelta è fatta: io implodo, come se il precipitare centripeto mi salvasse per sempre da dubbi e da errori, dal tempo dei mutamenti effimeri, dalla scivolosa discesa del prima e del poi, per farmi accedere a un tempo stabile, fermo, levigato e raggiungere la sola condizione definitiva, compatta, omogenea. Esplodete, se così vi garba, irradiatevi in frecce infinite, prodigatevi, scialacquate, buttatevi via: io implodo, crollo dentro l'abisso di me stesso, verso il mio centro sepolto, infinitamente. Da quanto tempo nessuno di voi sa più immaginare la forza vitale se non sotto forma d'esplosione?

Italo Calvino, Le cosmicomiche







martedì 3 marzo 2015

Soltanto il mare



Di certi posti guardo soltanto il mare
il mare scuro che non si scandaglia
il mare e la terra che prima o poi ci piglia
e lascio la strada agli altri, lascio l'andare
e agli altri un parlare che non mi assomiglia…

Gianmaria Testa, Il passo e l’incanto
 




lunedì 2 marzo 2015

Per puro scopo di conoscenza…



Si chiama Al posto loro ed è dedicato ai quindici macachi vittime degli esperimenti al cervello negli stabulari dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il folgorante cortometraggio di Piercarlo Paderno, filmaker e attivista di Animal Amnesty, che nel giugno scorso aveva accompagnato Paolo Bernini, deputato M5S, nel vano tentativo di un accesso chiarificatore ai laboratori. (...)
Finora, non sono state sufficienti alla scarcerazione degli animali più di cinquantamila firme dei cittadini e una lettera sottoscritta da  ben novanta parlamentari che chiedono, anch’essi,  la liberazione dei primati, oggetto di lunghi test invasivi e dolorosi culminanti con la morte, dalla dubbia utilità a detta degli stessi ricercatori – di cui fu registrata una conversazione filmando di nascosto le tristissime condizioni di detenzione di animali terrorizzati. 
Paderno ci propone dunque una riflessione in più. Ci chiede di pensare cosa proveremmo se accadesse a noi;  se la tortura, gli elettrodi impiantati nel cranio trapanato, l’immobilizzazione con le cinghie sulla sedia di contenzione, gli stimoli, lo stordimento, la paura, fossero vissuti da un uomo. 
E’ casto e quasi immobile, il suo brevissimo film. Non si grida né si versa una goccia di sangue in più di quello già raggrumato sulla fronte dell'ammutolito protagonista, (…) Ciò nondimeno, la provocazione è forte.
 
 

I macachi di Modena possono essere studiati per un anno intero con elettrodi impiantati nella scatola cranica, legati a una sedia quando non segregati da soli in una gabbia minuscola, per essere infine uccisi in favore di un esame del cervello. Perché, per curare quale malattia? "Effettivamente, essendo ricerca di base, ha il solo scopo della conoscenza", è la risposta di un ricercatore, riportata dal video realizzato dentro la struttura...





I morti



Tutti i morti della valle e della collina non sono veramente morti: stanno, di notte, all’imbocco del bosco, e stanno nel cuore delle persone vive. Quando i morti sono disperati per la loro stessa morte, si girano, stringono i pugni, e a quel punto le persone che ancora sono in vita sentono le fitte al petto e alla spalla. Nessuno muore mai veramente, perché nessuno avrebbe voluto morire per davvero: per questo i morti sono anime dolci da chiamare, anime da consolare, anche se hanno l’occhio secco di paglia. Nessuno però deve storcere il muso quando c’è l’amore, quando c’è la salute, quando c’è appetito, perché sennò i morti spengono la testa con un respiro, spingono le persone lì dove si vede l’ultimo precipizio. I morti chiedono ai vivi di vivere pienamente la maestà del giorno. I morti, certe volte, vorrebbero raddrizzare una testa che cade. I morti, poi, sono pieni di rimorsi, perché l’amore muore, l’amore è colpa: l’amore, quando si muore, è un tormento infinito, eterno.

 Andrea Di Consoli,  Il padre degli animali



Sogni e sintomi








domenica 1 marzo 2015

Dati


(Dati OCSE)



Opinioni



LUOGO COMUNE #387 

Quello che distingue un luogo comune da un’opinione personale non è che il primo è falso e la seconda è vera, ma che il luogo comune è comune e l’opinione personale è personale. Poi esistono svariate centinaia di miliardi di opinioni personali false e alcuni luoghi comuni veri, anche se al momento non me ne viene in mente neanche uno.
Di certo non è il caso di questo:
L’ateismo è una fede come tutte le religioni.
(…)
Ma l’ateismo non è una fede. Non lo dico per me, io non sono ateo. Io credo in Àtrantor, oscura divinità del male che si nasconde negli anfratti quantistici dello spazio-tempo e che ha creato il mondo per puro sadismo, un po’ come gli afroamericani hanno creato il rap. Dico che l’ateismo non è una fede perché, semplicemente, non è una fede, così come una mela non è un campo da tennis. La cosa difficile non è dimostrarlo, ma dimostrarlo senza citare la teiera di Russell.
Per prima cosa gli atei non si radunano in appositi templi per rendere grazie alla non esistenza di Dio, non si appendono al collo una rappresentazione materiale del nulla e non si travestono in modi bizzarri per indicare ad altri la via per non credere in nessuna religione. Questa è già una grossa differenza, ma non è l’unica.
Siccome quelli che non credono all’esistenza delle divinità vengono tutti messi sotto la voce “atei”, si è portati a pensare che l’ateismo sia una concezione del mondo alternativa alle religioni, ma non è così. Un ateo è solo uno che per qualche motivo non ritiene plausibile l’esistenza delle divinità attualmente disponibili sul mercato.
Poi vai a sapere cosa pensa. Se uno è cristiano lo sai cosa pensa, per esempio pensa che l’universo sia gestito da un tizio invisibile che duemila anni fa è sceso sulla Terra vestito da hippy dicendo di essere il figlio di se stesso, ma, per qualche inspiegabile motivo, non tutti gli hanno creduto. Non mi sembra un’informazione da poco. Invece se sai che uno è ateo non sai niente di lui, perché non conosci nemmeno una cosa in cui crede. Un ateo non è uno che non crede in niente, come spesso si dice (luogo comune #59), così come chi non tifa per nessuna squadra non è uno che tifa per il nulla. Quelli si chiamano nichilisti e li riconosci perché guardano le partite sperando che finiscano tutte zero a zero. Come si fa a chiamare “fede” una cosa che non dice niente sul mondo, l’esistenza umana o il lavaggio delle strade?
E poi c’è questo. Tolti i casi particolari, di solito uno nasce con una religione già in dotazione. Non succede che uno nasca ateo, faccia una ricerca personale e poi, dopo aver valutato attentamente tutte le offerte religiose, scelga quella che ritiene più conveniente, come si fa con i piani tariffari degli abbonamenti telefonici. Di solito uno conosce solo una religione, quella in cui ha fede. Invece succede abbastanza spesso che uno, a un certo punto della vita, rifiuti la religione con cui è nato dopo aver stabilito, secondo me a torto, che Dio non esiste. Uno nasce religioso e poi, eventualmente, decide di diventare ateo, non il contrario. La religione è una fede, l’ateismo è una scelta.

Pubblicato da Smeriglia | 23.2.15



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