mercoledì 31 agosto 2016

Temere




Temere non l'oscurità
ma la mancanza di luce
temere non il vuoto
ma l'incompiutezza dello spazio
temere non la solitudine
ma l'assenza di un ambiente
temere non la morte
ma l'incapacità di sopravvivere.

Vitalij Boryspolec’, Lo spavento



    (F. Fontana, Mar Ligure)


 

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(Claudio Rocchi, 1971)








domenica 28 agosto 2016

Cose



Ho imparato che niente è più terribile che trovarsi faccia a faccia con gli oggetti di un morto. Di per sé le cose sono amorfe: assumono significato solo in funzione della vita che ne fa uso. Quando essa giunge al termine, le cose cambiano anche restando uguali. Ci sono e non ci sono, come spettri tangibili, condannati a sopravvivere in un mondo dove non hanno più posto. Che ne sarà, ad esempio, di un armadio pieno di vestiti in silenziosa attesa di essere indossati da un uomo che non aprirà l'anta mai più? O delle scatole di preservativi sparse nei cassetti rigurgitanti biancheria e calzini? O del rasoio elettrico abbandonato in bagno, ancora zeppo della barba polverizzata dell'ultima rasatura? O del manipolo di flaconi vuoti di tintura per capelli, nascosti nella borsa di pelle da viaggio?… Rivelarsi improvviso di cose che nessuno vuol vedere, che nessuno desidera conoscere. In tutto questo c'è violenza, e anche una sorta di orrore. In sé le cose non significano nulla, come gli utensili da cucina di una civiltà scomparsa; e tuttavia ci dicono qualcosa, imponendosi non in quanto oggetto, ma come avanzi del pensiero, della coscienza, emblemi di una solitudine ove l'uomo giunge a prendere le decisioni personali; se tingersi i capelli oppure no, se indossare l'una o l'altra camicia, se vivere o morire. E la futilità di tutto questo quando arriva la morte.

P. Auster, L'invenzione della solitudine





La gente



Lotti contro la tua superficialità, la tua faciloneria, per cercare di accostarti alla gente senza aspettative illusorie, senza un carico eccessivo di pregiudizi, di speranze o di arroganza, nel modo meno simile a quello di un carro armato, senza cannoni, mitragliatrici e corazze d'acciaio spesse quindici centimetri; offri alla gente il tuo volto più bonario, camminando in punta di piedi invece di sconvolgere il terreno con i cingoli, e l'affronti con larghezza di vedute, da pari a pari, da uomo a uomo, come si diceva una volta, e tuttavia non manchi mai di capirla male. Tanto varrebbe avere il cervello di un carro armato. La capisci male prima di incontrarla, mentre pregusti il momento in cui l'incontrerai; la capisci male mentre sei con lei; e poi vai a casa, parli con qualcun altro dell'incontro, e scopri ancora una volta di aver travisato. Poiché la stessa cosa capita, in genere, anche ai tuoi interlocutori, tutta la faccenda è, veramente, una colossale illusione priva di fondamento, una sbalorditiva commedia degli equivoci. Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela priva del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l'intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri? Devono, tutti, andarsene e chiudere la porta e vivere isolati come fanno gli scrittori solitari, in una cella insonorizzata, creando i loro personaggi con le parole e poi suggerendo che questi personaggi di parole siano più vicini alla realtà delle persone vere che ogni giorno noi mutiliamo con la nostra ignoranza? Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando. Forse la cosa migliore sarebbe dimenticare di aver ragione o torto sulla gente e godersi semplicemente la gita. Ma se ci riuscite… Beh, siete fortunati.

Philip Roth, Pastorale americana




 

sabato 20 agosto 2016

venerdì 19 agosto 2016

lunedì 15 agosto 2016

Io non so




Io non so se questa mia vita sta spianata su un
buco vuoto. Non so se il silenzio che indago
é intrecciato alla mia sostanza molle.
Io non so se quello che cerco e ho cercato e
cercherò, non so se quello che cerco
é un insulto a quel vuoto.
Non so se questo fatto di non avere
un paio d’ali, sia premio o castigo,
io non so se la polveriera
della mia inquietudine sia un trono
su cui mi siedo minacciato, se la fuga che
a scatti regolari mi pungola, se quel
puerile sogno di fuga sia uno sgambetto
d’angelo, d’un buffone d’angelo che
mi vuole inciampare.
Io non so se l’amore sia una guerra o una
tregua, non so se l’abbandono d’amore
sia una legge che la vita cuce fino al
ricamo finale. Io non so
che farmene di questi nemici che premono,
non so che farmene oggi di questo oggi
e me lo ciondolo fra le dita perplesse,
non so parlare di quello che
è sentito nel profondo me, non so parlarlo
quell’essere che é qui presente fra le vite degli
altri.

Io non so spiegarmi l’imperturbabilità
di Dio, e non mi spiego di non udire il
suo grave lamento, il suo urlo di collera o
d’amore, e non so vederlo che sono in cecità
ma vorrei sentirlo almeno piangere come piango io
guardando le facce indolorate, guardando le
facce con grave malattia terrestre,
io non so invocarlo né bestemmiarlo che
è troppo nella sottrazione e troppo
astratto per i miei chili umani.

Io non so forse non voglio
consegnarmi negli uffici del mondo,
e stare buono nelle sale d’aspetto della
vita. Io non so nient’altro
che la vita e molte nuvole intorno che
me la confondono me la confondono e non
so cosa aspetto, cosa sto aspettando in questo
sporgermi al tempo che viene. Io non so
e vorrei, vorrei, non so stare
fuori misura, fuori misura umana,
fuori da questa taglia finita.

Io non so perché guardando l’acqua del mare
mi salta in petto una gioia di figlio con la
madre. Non so se questa uscita mia in un secolo
a caso, se questo essere qui a casaccio,
io non so spiegarmi questa malattia
all’attacco del mondo, non so guarire
questa malattia che indolora e vorrei
sistemare ogni cosa, in un sogno puerile di
tregua, in un’arcadia anche retorica,
in un dormire abbracciato dei
guerrieri che si innamorano.

Io non ho capito e dovrei,
non ho capito il mondo della
vita, io non ho capito la legge sottostante
e non ho da fare la consegna a
questi cuccioli che aspettano, che esigono
da me l’aver capito.

Io non so la canzone
che spensiera e non so soccorrervi
non so pur volendolo
con quella forza di cagna
che dà il latte, non so soccorrervi nel vostro
sbando, io non so farvi un canto della
guarigione, non so farvi da balsamo
io non so mettervi nel coraggio essenziale,
nello slancio, nel palpito.

Il mio Graal l’ho ritrovato e perso cento
volte.

Io non so se le particelle piriche del mio
disagio fanno una miccia che incendia.
Non so se l’Attila del mondo ha
una forza che straborda le mie
dita pacifiche, non so se indurlo a
guerrigliare, non so se indurlo
se sedurlo se ridurlo a sagoma
di sogno, non so se alzare bandiera bianca
o finirò impantanato nella sua
normalità stupefacente, nella sua
normalità di Attila che
fa terra bruciata, non so se battermi,
essere patriota di un’idea sollevata, non so
se fare il giuramento alla
primavera che dice la sua infiorando e
incantando, non so se slanciarmi
nel cataclisma barbarico e dare
un goccio d’acqua alle bocche
screpolate di fratelli, non so
se fare il giuramento a questa tregua
domestica, se fare il giuramento delle
pance satolle o azionare un voltafaccia
che strozza ogni boccone. Non so se nell’uno o
nell’altro caso sono salvo, se sono salvo
quando viene l’angelo
col suo atto d’accusa, e ci condanna ancora
ad una logica finanziaria
e poi dà l’ordine di sospendere le vite.

Io non so se la bellezza è questa accademia di
centimetri, se la bellezza, la bellezza è questa
carnevalesca decadenza di saltimbanchi,
io non mi spiego la crocifissione
della grazia, e non mi spiego perchè
mi trovo qui, in questo covo rivoltato
in questa fossa con gli orchi attuali
in questo lato barbarico della specie,
e non so perchè stando a occidente non si
ode quell’alleluia delle cose.
Io non so se in questa schiena
senza ali ci son grandi pianure da cui fare
il decollo, se in questa spina dorsale
ci sono istruzioni
per la manovra di decollo, se sono io la freccia
di questo arco della schiena, se sono io
arco e freccia, non so in quale mano
non mano o zampa di Dio mi stanno
torchiando, e sottoponendo al duro
allenamento dei dolori terrestri.

Io non so se la solitudine, se quello
strazio chiamato solitudine, se quell’andare
via dei corpi cari, se quel restare soli
dei vivi, io non so se quel lamento della
solitudine, se quel portarci via le facce
se quel loro sparire
di facce che avevamo dentro il respiro, non so
se il dono sia questo portarci via le
carezze, questa slacciatura.

E’ poco il poco che so e di questo
poco io chiedo perdono. Io chiedo
perdono per quello che so, perdono io chiedo
per tutto quello che so.


Mariangela Gualtieri,
da "Parsifal", in "Fuoco centrale e altre poesie per il teatro" 







 

martedì 9 agosto 2016

domenica 7 agosto 2016

Aasha



Even though Aasha, a Bengal tiger cub, was 9 months old, she weighed only  30 pounds which would only be normal for a 3-month-old cub. The poor thing belonged to a travelling circus where she was not only mistreated but also picked on by a much larger tiger. Luckily, Vicky Keahey, founder of Texas’ In-Sync Exotics Wildlife Rescue and Educational Center, took her under her rescue’s care back in 2011.

 
Aasha’s bald spots covered almost her entire body and her skin was dry [with] cracked, darken areas and bleeding,” Keahey told The Dodo. The cub was suffering from ringworm and had open wounds. “Every day, twice a day, I would go in and give Aasha medications and spend time with her.” She would also give her medicated baths, which she disliked so much that Keahey had to chase her after. But Keahey’s efforts paid off. After 8 weeks of treatment, Aasha’s fur began to heal and she became fond of swimming! “Within eight months she looked like a real tiger.”

 
 Aasha was then introduced to a bigger tiger named Smuggler
 who “went crazy for her and was always showing off for her.”
 
 Now the two live in the same enclosure together and Aasha is a healthy and very much loved tigress!

And she just can’t get enough of baths!

(fonte : boredpanda)

 

 

 

 

martedì 2 agosto 2016

lunedì 1 agosto 2016

Exactly!


































Larung Gar




 È iniziata il 20 luglio la demolizione dell’istituto buddista più grande del mondo, nell’est del Tibet. Un centro che comprende anche la città studentesca di Larung Gar in cui vivono oltre diecimila tra cinesi e tibetani. Le autorità vogliono ridurre il numero di monaci e monache. Non a caso le prime a essere demolite sono state proprio le loro case. La motivazione di tale decisione data dalle forze di polizia cinesi, che a quanto denunciato da attivisti di Free Tibet non è stata concordata con gli abitanti della struttura, ufficialmente è quella di garantire la sicurezza di un’area sovrappopolata. Lo scorso giugno le autorità avrebbero distribuito un’ordinanza che esigeva la riduzione a 5 mila del numero di presenze nel monastero. L’ordine fissava per il 30 ottobre l’inizio del trasferimento dei residenti e delle demolizioni ed elencava una serie di punizioni se i residenti non si fossero trasferiti, fra cui quella della distruzione completa del monastero. Il governo cinese ha anticipato l’inizio delle demolizioni di accademia e monastero adducendole al rischio di eventuali collegamenti con le «forze separatiste in esilio» 
(Corriere della sera)

 
Larung Gar è un insediamento a 3.700 metri d’altezza nella Contea cinese di Sertar, dove vivono insieme agli studenti circa 40 mila monaci tibetani, caratterizzato da migliaia di capanne rosse ammassate le une alle altre, ed è molto importante anche per le monache, considerato che proprio qui giungono allieve da tutto il Tibet. A Larung Gar non esistono televisioni e cellulari, i religiosi lavorano e meditano tutto il giorno da decenni, in una valle per lungo tempo rimasta incontaminata.
 





E tuttavia



L'Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi.
È un paese dove tutto funziona male, come si sa.
È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l'incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l'intelligenza, come un vivido sangue. È un'intelligenza che, evidentemente, non serve a nulla. Essa non è spesa a beneficio di alcuna istituzione che possa migliorare di un poco la condizione umana.
Tuttavia scalda il cuore e lo consola, se pure si tratta d'un ingannevole, e forse insensato, conforto. 
 
Natalia Ginzburg, Le piccole virtù, 1962