giovedì 29 novembre 2012

Dischi Importanti / 1996







Incombere umorale degli affetti del sangue
Incombere umorale delle idee delle istanze
Insolente promessa sciocca vacua solenne
di bastare a sé...

Non tornerò mai dov'ero già
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai a prima, mai
Non tornerò mai dov'ero già

 Incombere umorale delle idee delle istanze
Incombere umorale degli affetti del sangue
Potessi dirti quello che nemmeno posso scriverti
esiterei nel farlo...

Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di seta e candore
Oggi è domenica, domani si muore
Oggi mi vesto di rosso e d'amore

Ad onta di ogni strenua decisione o voto contrario
Mi trovo imbarazzato sorpreso ferito
Per un'irata sensazione di peggioramento
Per un'irata sensazione di peggioramento
Di cui non so parlare né so fare domande
Di cui non so parlare né so fare domande

domenica 25 novembre 2012

Ernst Haas





Ernst Haas , Photographer

(Vienna, 2 marzo 1921 – New York, 12 settembre 1986)

"A picture is the expression of an impression. If the beautiful were not in us, how would we ever recognize it?"




  
"Il colore non significa bianco e nero più colore, come il bianco e nero non è solo un'immagine senza colore. Ciascuno di questi mezzi richiede una diversa sensibilità nel vedere e, di conseguenza, una diversa disciplina"

 
 

 "Penso che il colore rappresenti una sfida maggiore. Col bianco e nero esistono solo tonalità di grigio. Col colore ci si trova davanti alle più incredibili combinazioni di sottili sfumature che possono essere sfruttate per esprimere profondità o rilievo. Il bianco e nero riproduce le linee essenziali nel modo più immediato. Se, per esempio, si deve fotografare una situazione in cui il soggetto principale è vestito in grigio mentre un personaggio secondario è in rosso, l’occhio sarà costantemente attratto da quest’ultimo. Col bianco e nero il problema non sussiste, ma col colore bisogna procedere con molta attenzione. Fotografare a colori è più difficile: è necessario pensare e sentire in un modo diverso…"





giovedì 22 novembre 2012

martedì 20 novembre 2012

lunedì 19 novembre 2012

Ordine narrativo



Come uno dei pensieri apparentemente distaccati e astratti che così spesso nella sua vita acquistavano un valore immediato, gli venne in mente che la legge di questa vita a cui si aspira oppressi sognando la semplicità non è se non quella dell'ordine narrativo, quell'ordine normale che consiste nel poter dire:  Dopo che fu successo questo, accadde quest'altro.
Quel che ci tranquillizza è la successione semplice, il ridurre a una dimensione, come direbbe un matematico, l'opprimente varietà della vita; infilare un filo, quel famoso filo del racconto di cui è fatto anche il filo della vita, attraverso tutto ciò che è avvenuto nel tempo e nello spazio! Beato colui che può dire: allorché , prima che e dopo che ! Avrà magari avuto tristi vicende, si sarà contorto dai dolori, ma appena gli riesce di riferire gli avvenimenti nel loro ordine di successione si sente così bene come se il sole gli riscaldasse lo stomaco.
(…)
Nella relazione fondamentale con se stessi, quasi tutti gli uomini sono dei narratori. Non amano la lirica, o solo di quando in quando, e se anche nel filo della vita si annoda qualche perché o affinché, essi esecrano ogni riflessione che vada più in là: a loro piace la serie ordinata dei fatti perché somiglia a una necessità, e grazie all'impressione che la vita abbia un corso si sentono in qualche modo protetti in mezzo al caos.

(Musil, USQ)





venerdì 16 novembre 2012

Axolotl



Io mi appoggiavo alla sbarra di ferro che corre lungo le vasche e stavo là a guardarli. Non c'è nulla di strano in questo, perché fin dal primo momento compresi che eravamo legati, che qualcosa d'infinitamente perduto e distante continuava nonostante tutto a tenerci uniti. 
Mi era bastato fermarmi quella prima mattina davanti al vetro della vasca dove alcune bolle d'aria scivolavano nell'acqua. Gli axolotl si ammonticchiavano sul meschino e stretto (solo io posso sapere quanto meschino e stretto) pavimento di pietra e muschio dell'acquario. Erano nove esemplari, e quasi tutti poggiavano la testa contro il vetro guardando con i loro occhi d'oro chi si avvicinava. Turbato, quasi vergognoso, provai un sentimento d'impudicizia nell'affacciarmi su quelle figure silenziose e immobili ammucchiate in fondo all'acquario. Mentalmente ne isolai una, a destra e un po' discosta dalle altre, per studiarla meglio. Vidi un corpicino roseo e come traslucido (pensai alle statuine cinesi di cristallo lattiginoso), simile a una piccola lucertola di quindici centimetri che termini in una coda di pesce di una delicatezza straordinaria, la parte piú sensibile del nostro corpo. Lungo la schiena aveva un'aletta trasparente che si fondeva con la coda, ma ciò che mi ossessionò furono le zampe, di una finezza straordinaria, che terminavano in dita minute e in unghie minuziosamente umane. E fu allora che scoprii i suoi occhi, il suo volto. Un volto inespressivo, senza altro ornamento che gli occhi, due orifizi come punte di spillo, interamente d'oro trasparente, privi in modo assoluto di vita, ma che guardavano e si lasciavano penetrare dal mio sguardo che pareva attraversare il punto aureo e perdersi in un diafano mistero interiore. Un sottilissimo alone nero circondava l'occhio e lo iscriveva nella carne rosa, nella pietra rosa della testa vagamente triangolare, ma con lati curvi e irregolari che la rendevano in tutto simile a una statuina corrosa dal tempo. La bocca era nascosta dal piano triangolare del volto, solo di profilo s'indovinava la sua grandezza considerevole; di fronte, una sottile fenditura incrinava appena la pietra senza vita. Sui due lati della testa, dove avrebbero dovuto esserci le orecchie, gli crescevano tre rametti rossi come di corallo, una escrescenza vegetale, le branchie, suppongo. Ed erano l'unica cosa viva in lui, ogni dieci o quindici secondi i rametti si drizzavano rigidi e si riabbassavano. Qualche volta una zampa si muoveva impercettibilmente, io vedevo le piccole dita posarsi con leggerezza sul muschio. 
È che a noi non piace muoverci molto, l'acquario è cosí stretto; appena avanziamo un tantino ci urtiamo l'un l'altro con la coda o con la testa; nascono difficoltà, liti, fatica. Si sente meno il tempo se stiamo quieti.

(Julio Cortazar, Axolotl, in Fine del gioco)



mercoledì 14 novembre 2012

Diluvio



Tutti conoscono la vecchia leggenda dei Prossimani del diluvio. Secondo questa bella tradizione, il diluvio non devastò l’intero pianeta, ma solo una parte, la più prospera, ampia e fittamente popolata. Quando prese a piovere e i fiumi si ingrossarono e la gente prima inumidita, poi seccata, poi travolta si diede alla fuga pei campi, le tribù viciniori presero a deplorare la situazione. In ciò agevolati dal clima ragionevolmente sereno, gli uomini migliori di quelle razze si raccolsero in luoghi aprichi; erano uomini colti, intellettuali, fondatori delle arti, smaliziati manipolatori di sintassi. Si misero in capo di redigere un documento: il che essi fecero presto e bene. In quel testo, costoro, rivolgendosi alla Nuvole - giacché rivolgere direttamente la parola all’iracondo Dio diluviante poteva prestarsi a interpretazioni che poi sarebbe stato difficile rettificare - ‘fecero notare’ come fosse contrario ad ogni consuetudine piovere così a lungo, tanto e in un posto solo; ‘deplorarono’ la devastazione dei campi e delle greggi; e inserirono un bel pezzo sui bambini annegati, che era cosa di grande e semplice bellezza. Proseguendo, ed anzi via via incanagliendosi le piogge, i valentuomini si riunirono di nuovo, e - mentre un comitato di femminette preste di dita e conocchie si davano a far golfini - elaborarono un secondo documento, che era senza alcun dubbio accorato. In questo ‘si denunciava’ l’indifferenza delle piove alla pubblica opinione e si ‘reclamava’ a) l’immediata cessazione del diluvio, b) la restaurazione del ciel sereno, «inalienabile diritto di tutti i cittadini», c) l’impegno a non piovere più, se non nelle forme e nei limiti consacrati dalla tradizione. Il diluvio continuò, e le brave donne allungarono i golfini adattandoli a comodi sudari, qualche dabbene scrisse una lettera aperta sulla «inutile strage», che ancora si legge nelle scuole. Si narra anche che mentre l’incaricato banditore a gran voce leggeva alle Nuvole il messaggio, più su il Numinoso Caprone si rotolasse sui bronzei planciti dell’empireo, percotendoli con la latitudine delle arcaiche chiappe, e traendone un clangore di aureolata letizia.

(G.Manganelli, Alcune ragioni per non firmare gli appelli, da Lunario dell’orfano sannita, Einaudi 1973)

 

lunedì 12 novembre 2012

martedì 6 novembre 2012

Scrittori & Libri


Per diventar scrittore, bisogna anzitutto esserci nati, e allora la cosa riesce facile e spontanea, ma se fa difetto l’inclinazione la faccenda è alquanto complicata, e non si riesce a nulla. 
È bene, del resto, che non tutti siano scrittori, se no come si farebbe a trovare un pubblico per ogni libro che si stampa? Saggia è quindi stata la natura nel concedere solo a pochi la fantasia dello scrivere. Credi tu d’essere nato a ciò? Scruta i decreti del destino consultando una sonnambula, o una chiromante. Non di rado, infatti, le persone di talento cercano la verità in ciò che la scienza respinge  e deride. Interroga, inoltre, le tue naturali attitudini. Se nel porgere da bere a un amico, la tazza ti sfugge e colpisce un cane che s’avventa e ti morde i polpacci; se mentre stai per lanciare un guanto di sfida, t’avvedi di non aver mai posseduto guanti, e lanci invece una ciabatta smessa; se al colmo della disperazione vorresti chiudere gli occhi e gettarti dalla finestra, e invece chiudi la finestra e ti getti a dormire sul letto; se, insomma tutto ciò che fai ti torna a rovescio, o viene frainteso, quasi di certo sei nato per essere scrittore. Corri, senza indugio, dal cartolaio, compera una risma di carta, chiuditi in soffitta e affrettati a rivelare al mondo i tuoi divini pensamenti.  Le nottole tessono sul tuo capo strani voli a sghembo, fuori ridono le stelle, o avvampa il sole, o infuria la procella, ma tu non odi, non vedi che i fantasmi creati dalla tua mente.

(Carlo Cetti  Libro per gli scrittori (1958) «Al lettore (Ricetta magica)»)



Un libro non si legge; vi si precipita; esso sta, in ogni momento, attorno a noi. Quando siamo non già nel centro, ma in uno degli infiniti centri del libro, ci accorgiamo che il libro non solo è illimitato, ma è unico. Non esistono altri libri; tutti gli altri libri sono nascosti e rivelati in questo. In ogni libro stanno tutti gli altri libri; in ogni parola tutte le parole; in ogni libro, tutte le parole; in ogni parola, tutti i libri. Dunque questo ‘libro parallelo’ non sta né accanto, né in margine, né in calce; sta ‘dentro’, come tutti i libri, giacché non v’è libro che non sia ‘parallelo’.
(G. Manganelli)






giovedì 1 novembre 2012

Aggettivazione imperfetta




Il tinnirume, foglie e cime di cucuzzeddra siciliana, quella lunga, liscia, di un bianco appena allordato di verde, era stato cotto a puntino, era diventato di una tenerezza, di una delicatezza che Montalbano trovò addirittura struggente. Ad ogni boccone sentiva che il suo stomaco si puliziava, diventava specchiato come aveva visto fare a certi fachiri in televisione.
 "Come lo trova?" spiò la signora Angelina. "Leggiadro" disse Montalbano. E alla sorpresa dei due vecchi arrossì, si spiegò. "Mi perdonino, certe volte patisco d'aggettivazione imperfetta".