lunedì 23 dicembre 2013

Scrivere / 4



Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo? Noi abbiamo bisogno di libri che agiscano su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio. Un libro deve essere la scure per il mare gelato dentro di noi. 
Franz Kafka


Se ho capito bene, lei mi chiede perché non abbia scelto semplicemente il silenzio, invece di girargli attorno, e mi rimprovera di profondermi in lamenti quando farei meglio a tacere. Tanto per cominciare, non tutti hanno la fortuna di morire giovani. Il mio primo libro l'ho scritto in rumeno, a ventun anni, ripromettendomi per il futuro di non scrivere più niente. Poi ne ho scritto un altro, seguìto dallo stesso proposito. La commedia si è ripetuta per più di quarant'anni. Il motivo? Il motivo è che lo scrivere, per poco che valga, mi ha aiutato a passare da un anno all'altro, perché le ossessioni espresse si attenuano e in parte vengono superate. Sono certo che se non fossi stato un imbrattacarte mi sarei ucciso da un pezzo. Scrivere è un enorme sollievo. E pubblicare anche. Le sembrerà ridicolo, eppure è verissimo. Un libro è la tua vita, o una parte della tua vita che ti rende estraneo. Ci si libera contemporaneamente di tutto quello che si ama e soprattutto di tutto quello che si detesta. Le dirò di più: se non avessi scritto, sarei potuto diventare un assassino. L'espressione è una liberazione. Le consiglio di provare questo esercizio: quando odia qualcuno, quando le viene voglia di farlo fuori, prenda un pezzo di carta e scriva che X è un porco, un bandito, un farabutto, un mostro. Si renderà subito conto di odiarlo meno. E proprio quello che ho fatto io. Ho scritto per ingiuriare la vita e per ingiuriare me stesso. Il risultato? Mi sono sopportato meglio, e ho sopportato meglio la vita.
 
Lei ha scritto: «Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve allargarle. Un libro deve essere un pericolo». 

Io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo. Poiché i libri che ho scritto sono nati dai miei malesseri, per non dire dalle mie sofferenze, è proprio questo che devono trasmettere in qualche maniera al lettore. No, non mi piacciono i libri che si leggono come si legge un giornale: un libro deve sconvolgere tutto, rimettere tutto in discussione. Il motivo? Ebbene, io non mi preoccupo molto dell'utilità di quanto scrivo, perché veramente non penso mai al lettore: scrivo per me, per liberarmi delle mie ossessioni, delle mie tensioni e nient'altro. (…) Io non scrivo con lo scopo di «fare un libro», perché venga letto. No, scrivo per disfarmi di un peso. Soltanto dopo, meditando sulla funzione dei miei libri, dico tra me che dovrebbero essere come una ferita. Un libro che lascia il lettore uguale a com'era prima di leggerlo è un libro fallito. (…)
Io non sono pessimista, ma violento... è questo che rende vivificante la mia negazione. Infatti, quando prima parlavamo di ferita, non consideravo la cosa in una luce negativa: ferire qualcuno non equivale affatto a paralizzarlo! I miei libri non sono né depressivi né deprimenti. Li scrivo con rabbia e con passione. Se potessero essere scritti a freddo, allora sì che sarebbe pericoloso. Ma non posso scrivere a freddo, sono come un malato che, in ogni circostanza, supera febbrilmente la propria infermità. La prima persona che ha letto il «Sommario di decomposizione», ancora in manoscritto, è stato il poeta Jules Supervielle. Era già molto anziano, profondamente incline alla depressione, e mi ha detto: «È incredibile quanto mi abbia stimolato il suo libro». In questo senso, se vuole, sono simile al diavolo, che è un essere attivo, un negatore che mette in moto le cose...


Emile Cioran, Intervista con Fernando Savater

 
 

Wounda / Jane



Wounda, una femmina di scimpanzé, era stata trovata in fin di vita dopo l'uccisione di sua madre per mano dei bracconieri. Dopo essere stata curata in un centro di riabilitazione per animali, è stata portata nell'isola di Tchindzoulou, un'area protetta del Congo. Quando la gabbia da trasporto viene aperta, Wounda stringe in un abbraccio Jane Goodall, l'etologa britannica che l'ha salvata. La donna è una delle più importanti primatologhe al mondo e ha fondato un'associazione senza scopo di lucro che attualmente ospita quasi duecento animali










Nomachi




 
14 dicembre 2013 – 4 maggio 2014
Roma, La Pelanda


 











venerdì 20 dicembre 2013

Amore / 2



Non amiamo mai nessuno. Amiamo solamente l'idea che ci facciamo di qualcuno. E' un nostro concetto (insomma, noi stessi) che amiamo. Questo discorso vale per tutta la gamma dell'amore. Nell'amore sessuale cerchiamo il nostro piacere ottenuto attraverso un corpo estraneo. Nell'amore che non è quello sessuale cerchiamo un nostro piacere ottenuto attraverso un'idea nostra.
Due persone dicono reciprocamente "ti amo", o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l'attività dell'anima. Oggi sono lucido come se non esistessi. Il mio pensiero è evidente come uno scheletro, senza gli stracci carnali dell'illusione di esprimere. E queste considerazioni non sono nate da niente: o almeno da nessuna cosa per lo meno che sieda nella platea della mia coscienza. (...)
Vivere è non pensare.

Pessoa, Libro dell’inquietudine
 






Woodman









Photographer: Francesca Woodman

(Denver 3/04/1958–New York 19/01/1981) 



« Ho dei parametri e la mia vita a questo punto è paragonabile ai sedimenti di una vecchia tazza da caffè e vorrei piuttosto morire giovane, preservando ciò che è stato fatto, anziché cancellare confusamente tutte queste cose delicate »


Am I in the picture? Am I getting in or out of it? I could be a ghost, an animal or a dead body, not just this girl standing on the corner…










martedì 17 dicembre 2013

Natale di seconda mano





















Trentesimo anno



Di uno che entra nel suo trentesimo anno non si smetterà di dire che è giovane. Ma lui, benchè non riesca a scoprire in se stesso alcun mutamento, non ne è più così sicuro: gli sembra di non avere più diritto di farsi passare per giovane. E la mattina di un giorno che poi scorderà si sveglia e, tutt’a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi, colpito dai raggi di una luce crudele e sprovvisto di ogni arma e di ogni coraggio per affrontare il nuovo giorno. Non appena chiude gli occhi per proteggersi, si sente andar giù e precipita in un deliquio in cui trascina con sé ogni istante vissuto. Continua a sprofondare e il suo grido non ha suono (privato anche del grido, di tutto privato!) e precipita in una voragine senza fondo finché non perde i sensi, finché non si è dissolto, spento e annientato tutto ciò ch’egli credeva d’essere. Quando riprende conoscenza e tremando ritorna in sé, quando riacquista forma e ridiventa una persona che ha fretta d’alzarsi e uscire alla luce del giorno, allora scopre dentro di sé una nuova meravigliosa facoltà. La facoltà di ricordare. Non gli capita più, come sino a quel momento, di ricordare questo o quello quando meno l’aspetta o perchè lo desideri, ma è piuttosto una necessità dolorosa quella che lo costringe a ricordare tutti i suoi anni, quelli lievi e quelli travolgenti, e tutti i luoghi dove in quegli anni aveva abitato. Getta la rete della memoria, la getta attorno a sé e tira su se stesso predatore e insieme preda, oltre la soglia del tempo, oltre la soglia del luogo, per capire chi egli sia stato e chi stia diventando.

Ingeborg Bachmann,  Il trentesimo anno  



Bisogni / Sogni



Se ognuno di noi confessasse il suo desiderio più segreto, quello che ispira tutti i suoi progetti e tutte le sue azioni, direbbe : "Voglio essere elogiato". Nessuno però vi si lascerà indurre, giacchè è meno disonorevole commettere un abominio che proclamare una debolezza così miserevole e umiliante, nata da un sentimento di solitudine e di insicurezza del quale soffrono, con uguale intensità, e i reietti e i fortunati.  Nessuno è sicuro di ciò che è, né di ciò che fa. Per quanto convinti dei nostri meriti, siamo rosi dall'inquietudine e, per vincerla, non chiediamo che di essere ingannati, di ricevere approvazione ovunque e da chiunque. Un buon osservatore scopre sempre una sfumatura di supplica nello sguardo di chi abbia portato a termine un'impresa o un'opera, o semplicemente si dedichi a un genere qualsiasi di attività. La malattia è universale; e se Dio ne sembra indenne, è perchè, ultimata la creazione, non poteva aspettarsi lodi, per mancanza di testimoni.

E.M.Cioran, La caduta nel tempo








domenica 15 dicembre 2013

sabato 14 dicembre 2013

Circo



Gli orsi battono le zampe ritmicamente,
la scimmia in tuta gialla va in bicicletta,
il leone salta nel cerchio fiammeggiante,
schiocca la frusta e suona la musichetta,
schiocca e culla gli occhi degli animali,
l’elefante regge un vaso sulla testa,
e i cani ballano con passi uguali.

Mi vergogno molto, io – umano.

Divertimento pessimo quel giorno:
gli applausi scrosciavano a cascata,
benché la mano più lunga d’una frusta
gettasse sulla sabbia un’ombra affilata

Wisława Szymborska, Gli animali del circo







Solitudini / 2



Tutti coloro che prendono seriamente se stessi e la vita, vogliono stare soli, ogni tanto.
La nostra civiltà ci ha così coinvolti negli aspetti esteriori della vita che poco ci rendiamo conto di questo bisogno, eppure le possibilità che offre per una completa realizzazione individuale sono state messe in rilievo dalle filosofie e dalle religioni di tutti i tempi. Il desiderio di una solitudine significativa non è in alcun modo nevrotico; al contrario, la maggior parte dei nevrotici rifugge dalle proprie profondità interiori, ed anzi, l'incapacità di una solitudine costruttiva è per se stessa un segno di nevrosi. Il desiderio di star soli è un sintomo di distacco nevrotico soltanto quando l'associarsi alla gente richiede uno sforzo insopportabile, per evitare il quale la solitudine diviene l'unico mezzo valido.

Karen Horney, I nostri conflitti interni



martedì 10 dicembre 2013

lunedì 9 dicembre 2013

Eclisse


Ma comportarsi intelligentemente, ponderare con lucidità le conseguenze di ogni gesto, non era davvero facile, perché sembrava che persino l’aria fosse cambiata, nelle sue eterne composizioni, in modo profondo, incomprensibile, come se il principio sconosciuto che manda avanti il mondo – pur restando sconosciuto l’ha fatto andare avanti, prova ne è il mondo medesimo –, dopo aver sempre funzionato, all’improvviso fosse rimasto senza forze, si percepiva ovunque aleggiare qualcosa di ben più difficile da sopportare della consapevolezza che un pericolo è in agguato: la sensazione generale che potesse accadere di tutto; perché quel “di tutto” spaventava più del pericolo di normali disgrazie, privava le persone di giudizio e ragione – l’effetto evidente era un’apatia generale che si diffondeva lentamente.

Raccapezzarsi tra gli eventi insoliti, sempre più frequenti e spaventosi negli ultimi mesi, era ormai impossibile, perché oltre a perdersi il collegamento tra notizie, dicerie, chiacchiere, esperienze vissute (per esempio: c’era qualcuno che poteva stabilire un ragionevole rapporto tra il gelo tagliente giunto troppo precoce a novembre, misteriose tragedie familiari, l’aumento dei disastri ferroviari, le voci allarmanti provenienti dalla lontana capitale sull’incremento delle bande giovanili, il danneggiamento dei monumenti?), le notizie in sé, nonostante tutto, non dicevano molto prese singolarmente, se non sembrare tanti segni premonitori di un’imminente – come si diceva sempre più spesso – “catastrofe”. 


László Krasznahorkai, Melancolia della resistenza



Quello che vi chiedo è di seguirmi in uno spazio sconfinato, dove regnano  
l’eternità, la quiete, la pace e il vuoto infinito






Push the sky away



Who cares what the future brings?



I got a feeling I just can't shake     
I got a feeling that just won't go away    
You've got to just keep on pushing it      
Keep on pushing it 
Push the sky away 
And if your friends think that you should do it different       
And if they think that you should do it the same
You've got to just keep on pushing it      
Keep on pushing it 
Push the sky away 
And if you feel you got everything you came for
If you got everything and you don't want no more     
You've got to just keep on pushing it      
Keep on pushing it 
Push the sky away  




sabato 7 dicembre 2013

Stella closer / 2











Ricchezza



(…)  egli era persuaso che la ricchezza è una qualità di carattere. Tutti i ricchi la pensano così. E anche tutti i poveri. Il mondo intero, in fondo, ne è tacitamente convinto. Solo la logica solleva qualche difficoltà, poiché sostiene che il possesso di denaro conferisce forse qualche qualità, ma non può mai divenire esso stesso una qualità umana. L'evidenza però lo smentisce. Non c'è naso che non fiuti immediatamente il delicato odore d'indipendenza, abitudine di comandare, abitudine di scegliere sempre il meglio per sé, leggero disprezzo degli altri e costante consapevole responsabilità di potere che emana da un reddito alto e sicuro. L'aspetto di una persona di quel genere si rivela subito nutrito e rinnovato quotidianamente da una scelta finissima di forze universali. Alla sua superficie il denaro circola come la linfa in un fiore, non esistono qualità acquisite, abitudini contratte, nulla è indiretto, nulla è ricevuto di seconda mano: distruggi il credito e il conto in banca, e l'uomo ricco non è soltanto senza denaro, ma dal giorno in cui l'ha compreso è un fiore avvizzito. Come prima notavano immediatamente la sua qualità di essere ricco, tutti notano ora in lui, con la stessa immediatezza, l'indescrivibile qualità del nulla che ha il puzzo acre dell'incertezza, dell'insolvibilità, dell'inettitudine e della miseria. Dunque la ricchezza è una qualità personale, semplice, che non si può scomporre senza distruggerla. Ma gli effetti e le correlazioni di questa rara qualità sono straordinariamente intricati e occorre una grande forza morale per dominarli. Solo la mente che non ha denaro s'immagina la ricchezza come un sogno; chi la possiede, invece, ogni volta che si trova con gente che non la possiede, s'affretta a descrivere tutti i fastidi che essa procura. 
(…) Un altro e non minore guaio dei ricchi è che tutti vogliono soldi da loro. Il denaro non conta: è giusto, e mille o diecimila marchi di più o di meno non hanno importanza per un ricco. I ricchi poi amano asserire ad ogni occasione che i quattrini non cambiano il valore di una persona: con ciò intendono dire che anche senza denaro essi varrebbero quanto adesso, e se l'hanno a male se qualcuno li fraintende. Purtroppo questo capita loro di frequente soprattutto nei rapporti con intellettuali. Costoro posseggono ben sovente poco o punto denaro, ma soltanto molti progetti e molto ingegno, ma non per questo si sentono diminuiti nel loro valore, e considerano naturalissimo chiedere a un amico facoltoso, per il quale il denaro non conta, di sovvenirli con il suo superfluo. Non capiscono che l'amico facoltoso voglia sovvenirli con le sue idee, col suo sapere e con la sua personale forza d'attrazione. In tal modo lo mettono per di più in opposizione con la natura del denaro, perché questa vuole l'accrescimento, così come la natura animale tende alla riproduzione. Il denaro si può investire male, allora perisce sul campo dell'onore finanziario; si può usarlo per comprare un'automobile nuova quantunque la vecchia sia ancora in ottimo stato, o per soggiornare negli alberghi più costosi delle stazioni climatiche di fama internazionale portandosi dietro i propri cavalli da polo, o per istituire premi letterari e concorsi ippici, o in una sera sola spendere per cento invitati quanto basterebbe a mantenere per un anno cento famiglie: in tutti questi modi si butta il denaro dalla finestra, come un seminatore, ed esso rientra dalla porta moltiplicato. Ma donarlo tacitamente per scopi e persone da cui non ricava nulla, questo sarebbe assassinare il denaro a tradimento. Può darsi che quegli scopi siano buoni e quelle persone incomparabili; allora bisogna aiutarli con tutti i mezzi, ma con denaro no, assolutamente.

Musil, USQ









martedì 3 dicembre 2013

Paesi incivili / 3



L’ Italia è un paese che si fonda sul Volontariato.



Quando un Comune avvista un cane vagante sul proprio territorio, o riceve segnalazione dai cittadini, contatta il servizio Asl o i vigili locali e provvede all’accalappiamento dell’animale. Se il Comune ha una propria struttura, ossia un canile municipale, quello sarà il luogo di ricovero del cane. Diversamente, la destinazione sarà una struttura privata, un canile privato con cui il Comune ha in precedenza stipulato una convenzione. Convenzione che prevede una cifra giornaliera per il mantenimento dell’animale, pagata dal Comune.
I soldi usati per mantenere il cane presso il canile sono quelli dei cittadini, ossia soldi pubblici. Tutti gli italiani quindi contribuiscono, tra le altre cose, alla spesa di mantenimento per questi animali. Che sarebbe cosa buona, se ci fosse una garanzia di qualità di vita. Invece spesso le convenzioni si limitano a definire le cifre e le responsabilità, e non a stabilire criteri di benessere animale, come ad esempio l’uscita giornaliera dei cani dai box. Moltissimi infatti sono reclusi da ANNI, senza poter MAI mettere una zampa fuori, fino alla loro morte, e senza che nessuno lo imponga a chi li gestisce. E fino a quando un Comune, con i soldi dei propri cittadini, deve pagare? Le opzioni sono due: finché il cane muore, oppure, finché il cane viene adottato. Chi si occupa dell’adozione di questi cani? Spesso nessuno. Parte dei canili privati, a fronte di un guadagno giornaliero per ogni cane ospitato, non hanno alcun interesse a incentivarne l’adozione.
Il volontariato é spesso l’unica speranza per questi cani.
Nel nostro Paese quello dei canili privati convenzionati è un business che sembra andare di pari passo con l'apertura delle pizzerie a taglio. Impossibile suddividere la cifra di questo business per ogni singola regione. Ma si sa con certezza che a questa somma non corrispondono adeguate cure per gli animali: i controlli effettuati fino ad ora hanno rivelato, infatti, un alto tasso di illegalità penale ed amministrativa. Ci sono canili dove ogni anno muoiono la metà dei cani e subito vengono rimpiazzati. In altri il tasso di mortalità è ancora pari al 90%.

 Nella maggior parte delle strutture è impossibile entrare e non viene rispettato alcun orario di apertura al pubblico. I gestori di "rifugi/canili" privati possono contare su un contributo da parte dei Comuni che va da 2 a 8 euro al giorno per ogni cane. E la mancata effettuazione in alcune regioni d' Italia, come nel Lazio, di una campagna di sterilizzazione, prevista dalla stessa legge ma non rispettata, è stato uno dei motivi di questo dannato business. Così più cani sono reclusi, più soldi entrano nelle tasche dei gestori. Del resto i numeri parlano chiaro: ogni animale che viene accalappiato porta un introito di 50 euro, e ogni decesso è pari a circa 120 euro. Secondo la Lav, fino ad oggi ci si è limitati ad avere convenzioni con canili privati per i quali 120 Comuni - esclusa Roma - spendono quasi 3 milioni di euro l' anno, con risultati pessimi.
La legge esistente 189/2004 ha addirittura apportato modifiche al codice penale ed ha introdotto, con il titolo IX bis, i "delitti contro il sentimento per gli animali", disciplinando i reati di uccisione di animali, maltrattamento di animali, combattimenti tra animali, cercando di adattarsi alle normative europee. Eppure, questo regolamento non viene rispettato.

Il titolare di un canile guadagna dai 30 ai 50 euro per ogni cane accalappiato e la stessa somma la incassa per ogni cadavere incenerito.
Secondo un’indagine condotta da “La Stampa” ci sono canili in cui ogni anno muore la metà dei cani che viene immediatamente rimpiazzata da cuccioli. Fatti i conti, in un solo colpo il titolare del canile guadagna 100 euro: per il genitore del cane morto e per il nuovo cucciolo ingabbiato. Questi animali nella migliore delle ipotesi sono rinchiusi per terzine in ogni cella che ha la capienza di contenerne uno solo e di taglia media.
Vengono reclusi in strutture fatiscenti, maltrattati e dimenticati, a volte trasferiti clandestinamente in altri Paesi per finire nei laboratori della ricerca, oppure trasformati in cibo in scatola o pellicce. È una storia dove s'intrecciano sperpero del denaro pubblico, malasanità, criminalità organizzata. Dove gli interessi in gioco sono più alti di quanto non si sappia e la legge viene sistematicamente ignorata. Alla fine il silenzio conviene a tutti. Sindaci, polizia, giudici, medici della Asl. Tutti complici, a volte senza neanche saperlo. È l'Italia dei canili, un paese degli orrori. "Feriti, affetti da patologie e infezioni, malnutriti, relegati in spazi angusti e sovraffollati, trascurati e soli: questo lo stato in cui versano i "migliori amici dell'uomo" in molte strutture, pubbliche e private". Questo è scritto in un documento del Ministero della Salute che ha diffuso recentemente un video dei canili peggiori d'Italia, girato durante le ispezioni di 39 strutture da parte della task force per la tutela degli animali. Il filmato è visibile sul sito www.salute.gov.it
(Notizie prese dal web e da Repubblica.it