venerdì 31 gennaio 2014

Malacqua



“La conoscevano bene, loro, la pioggia di Napoli, che non cade mai e quasi mai, ma che quando cade poi non la smette più” 


La malattia aveva cancellato gli orpelli e le rutilanti decorazioni, ed aveva spento le grida nella strada, ed i gerani ai balconi s’erano fatti giallastri, e la finzione allegra del fatto collettivo si era trasformata adesso in dura constatazione di solitudine. E questo restava, della città impagabile, questo soltanto, e l’ombra d’un passato scolorito e la retorica che pretendeva di essere poesia, e nulla, e nulla, e quale città diversa avrebbe vissuto un giorno?, quale città? quella dei vicoli e dei travestiti e delle sigarette di contrabbando?, o quella del Nuovo Policlinico, della Tangenziale, della 167 di Secondigliano?, quale sarebbe stata un giorno la vita che si arrampica oggi tra le cave di tufo delle Fontanelle e gli alberi verdastri della Floridiana?, e cosa vogliamo farne di questa città dolente? 


 Per queste strade nascoste umide della città altro non sopravviveva che l’attesa, e provvisorietà sconcertante infida scendeva a incidere i pensieri e niente scampava, niente tranne che questo senso disperato e triste che adesso probabilmente ogni cosa sarebbe mutata.







lunedì 27 gennaio 2014

In bocca al lupo



Questo bellissimo auspicio era in uso in tempi passati ma da ormai molto tempo è stato completamente distorto per l’ignoranza delle sue origini e soprattutto per la falsa informazione che viene fatta del lupo. Io stesso ricordo quando da bambino mio nonno mi raccontava dei lupi, della loro grande capacità di sopravvivenza, della loro intelligenza e delle precauzioni che utilizzavano per tenere i cuccioli al sicuro. 
Mi raccontava che trovare la tana dei lupi era un evento rarissimo ma che se mai fosse accaduto sicuramente si sarebbero spostati in breve tempo in un’altra tana molto più lontana e sicura. Passavo ore ad ascoltare i suoi racconti e sono rimasti scolpiti nella mia mente per sempre, mi diceva “(…) loro possono sentire il nostro odore anche se siamo passati solo vicino alla tana, appena sentono che non siamo più in zona si precipitano a cambiare immediatamente tana, loro sanno che se un uomo scopre il loro rifugio può ritornate e creare quindi un potenziale pericolo, soprattutto se ci sono i cuccioli ancora troppo piccoli li spostano trasportandoli in bocca uno per volta. Avere dei genitori come i lupi è il miglior augurio che puoi ricevere – mi raccontava – e trovarsi in bocca al lupo è il massimo della protezione che si può sperare per un figlio”.
… lo sapevate che in bocca al lupo risale a Romolo e Remo, cuccioli d’uomo salvati dalla lupa? 
(...) il lupo quando sposta i cuccioli da una tana all’altra si aggira circospetto e attentissimo agli altri predatori, che in questo caso sono esposti al maggior rischio possibile perché in natura il lupo che difende i cuccioli è quanto di più feroce ci possa essere. Quindi in bocca al lupo aveva significato che lo spirito del lupo sia con te e ti protegga dai pericoli della vita, perché chi era nella bocca del lupo erano i cuccioli, ed erano al sicuro. La totale perdita cognitiva dell’origine del detto ha fatto si che in questi ultimi 20anni anziché il “grazie” di risposta all’augurio “in bocca al lupo” si sia arrivati per ignoranza al “crepi” o “crepi il lupo”, in assoluto non senso come augurio.
Pensiamo che sia arrivato il momento di ripristinare questo bellissimo augurio…








domenica 19 gennaio 2014

Ricordo



(…) Con gli anni tutto svanisce. Prima o poi, di tanto in tanto, un’immagine riemerge dalla corrente, vi è riconoscibile, stupenda nei suoi colori come l’oggetto della nostra disperazione. Passato: infanzia, giovinezza, dolore, morto da tempo, dolore non ancora morto, un frammento di primavera, un frammento d’inverno, un frammento d’estate – ma di quale estate? – la cosa che si è amata di piú.  S’incrociano strade e sentieri sassosi, tombe di familiari o di amanti: uomini che portano la bara di una donna oscurano l’intera scena, camion che trasportano botti, operai di fabbriche di birra, di caseifici, un ramo spezzato davanti alla casa paterna: angoscia che ci guida verso il fondo del lago. Coincidenze e casi trasformano in malattia tutto ciò ch’era ancora salute: un processo inesauribile.  «Tutto al mondo non è altro che un’idea di se stessi». Il processo che tiene assieme un essere fantastico come l’uomo grazie alle sue capacità, non costa fatica. Il ricordo è solo predilezione. «Se non lo è uccide tutto, distrugge in noi anche la parte piú coriacea». Follia, felicità, ostinazione e ignoranza, fede e mancanza di fede, sono in ogni momento a sua disposizione. «Ricordare è un godimento unico che fa arretrare la morte». Avere con il ricordo lo stesso rapporto che si ha con una persona che di tanto in tanto si manda via di casa, per poi riaccoglierla ogni volta con piú amore e determinazione, «ecco la convivenza ideale tra il ricordo e il suo possessore»: il ricordo è preceduto da un progetto.

Thomas Bernhard, Gelo



Dolore



«Molte idee diventano delle deformità che poi non si correggono piú per tutta la vita», disse lui. Le idee spesso ci stupiscono ancora dopo anni, ma prima o poi rendono sempre ridicolo chi le ha avute. Le idee vengono da un regno che esse in realtà non abbandonano mai. Continuano a restare lí dentro, le idee: nel regno dei sogni. «Non esiste una sola idea che si spenga, che possa venir spenta. L’idea è reale e tale resta». Quella notte aveva meditato sul dolore. «Il dolore in realtà non esiste. È un’invenzione necessaria». Il dolore non è il dolore come una mucca è una mucca. La parola dolore attira l’attenzione di un sentimento su un altro sentimento. Il dolore è un sovrappiú. Ma è l’idea del dolore ad essere realtà. Di conseguenza il dolore esiste e non esiste. «Ma il dolore non esiste, – disse lui. – Come non esiste la felicità, nessuna felicità. Creare un’architettura basata sul dolore». Tutti i pensieri, le immagini sono involontari come i concetti di chimica, di fisica e di geometria. Bisogna conoscere questi concetti per sapere qualcosa. Per sapere ogni cosa. Se ci si limita alla filosofia non si fa un solo passo avanti. «Nulla è progressivo, ma nulla è meno progressivo della filosofia. Il progresso è una sciocchezza. Impossibile».


Thomas Bernhard, Gelo


Gelo



All’improvviso, disse lui, s’era completamente reso conto di quale fosse stata la sua disgrazia, “un certo giorno di cui, deve sapere, potrei dirle la data così come potrei dirle i nomi delle persone con cui ho avuto a che fare quel giorno; gente di città, gente di grandi città, tutti saldamente ancorati al mondo che s’erano costruiti, allo spazio vitale di una fabbrica oppure di una galleria d’arte che fa buoni affari nel centro della città, oppure all’ambiente che si crea attorno a un’invenzione che loro avevano fatto e che gli fruttava grosse somme di denaro, oppure gente che era semplicemente felice senza sapere perché e come né si preoccupava di scoprirlo, con cui avevo dei rapporti che via via mi facevano un effetto demoralizzante, mi annoiavano a morte e mi ripugnavano, dei rapporti che col tempo degeneravano; passavo intere notti in casa di quella gente; mi facevo mostrare montagne di fotografie, davanti a me loro rovesciavano interi cervelli pieni di barzellette sporche e io ero costretto a ridere e ridevo davvero e bevevo, ridevo e dormivo, spesso sul pavimento, poi ero di nuovo costretto a tirar fuori i grandi nomi dell’arte ed ero in uno stato così miserando che però sembrava attirarli, quella miseria che era dentro di me e che si esprimeva nella mia persona li attirava, mi portavano con sé in questo o in quel luogo e volevano unirmi una volta per tutte alle loro vite, finché non giunse il momento, quel certo giorno, in cui capii che dovevo farla finita, non tornare indietro, ché tornare indietro era ed è impossibile e la feci finita con loro, la feci semplicemente finita e, lontanissimo da quelle persone e dalle loro abitudini, lontano dai loro averi e dalle loro opinioni, lontanissimo dal loro mondo che non era adatto al mio mondo, proseguii da solo, su un piano diverso, da un giorno all’altro quando mi resi esattamente conto che ormai non appartenevo più ad alcun mondo, né a quello dal quale ero appena fuggito, né a quello dal quale ero venuto né a quello nel quale, senza conoscerlo esattamente, volevo andare, verso il quale mi stavo incamminando, come un evaso dal carcere fuggivo in tutte le direzioni per non cadere nelle mani dei miei inseguitori…” Era una disgrazia non appartenere più ad alcun mondo, “non avere assolutamente più nulla”.

Thomas Bernhard, Gelo
 
 "Lui era un pessimista, che è già di per sé qualcosa di ridicolo, ma lui era qualcosa di ancora molto più terribile".





mercoledì 15 gennaio 2014

Madeleines



Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva? Che senso aveva? Dove fermarla? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione (e proprio ora), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità… retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più… ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi… All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…. 



Marcel Proust, Dalla parte di Swann


 

lunedì 13 gennaio 2014

Geniali invenzioni






Le geniali invenzioni del Professor Caspita! di Lorenzo De Felici

http://professorcaspita.tumblr.com/





Superman a Napoli











Scrittori


Amo soprattutto Stendhal perché solo in lui tensione morale individuale, tensione storica, slancio della vita sono una cosa sola, lineare tensione romanzesca.
Amo Puskin perché è limpidezza, ironia e serietà.
Amo Hemingway perché è matter of fact, understatement, volontà di felicità, tristezza.
Amo Stevenson perché pare che voli.
Amo Cechov perché non va più in là di dove va.
Amo Conrad perché naviga l’abisso e non ci affonda.
Amo Tolstoj perché alle volte mi pare d’essere lì lì per capire come fa e invece niente.
Amo Manzoni perché fino a poco fa l’odiavo.
Amo Chesterton perché voleva essere il Voltaire cattolico e io volevo essere il Chesterton comunista.
Amo Flaubert perché dopo di lui non si può più pensare di fare come lui.
Amo Poe dello Scarabeo d’oro.
Amo Twain di Huckleberry Finn. Amo Kipling dei Libri della Giungla.
Amo Nievo perché l’ho riletto tante volte divertendomi come la prima.
Amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia.
Amo Gogol perché deforma con nettezza, cattiveria e misura.
Amo Dostoevskij perché deforma con coerenza, furore e senza misura.
Amo Balzac perché è visionario.
Amo Kafka perché è realista. Amo Maupassant perché è superficiale.
Amo la Mansfield perché è intelligente.
Amo Fitzgerald perché è insoddisfatto.
Amo Radiguet perché la giovinezza non torna più.
Amo Svevo perché bisognerà pur invecchiare.

Italo Calvino 


sabato 11 gennaio 2014

Enter the Earth


Il mio lavoro è rivolto ai percettivi più che agli opinionisti. Nel mondo dominato dall’attualità, nelle macerie della modernità e dell’autismo corale, la paesologia propone un semplice esercizio per disintossicarsi dalle opinioni, per dare attenzione alle cose usuali, alle cose qualsiasi che nessuno guarda perché ovvie.
È un’esperienza per chi ama guardare il mondo, piuttosto che giudicarlo: osservare i luoghi e i modi di abitarli senza ansie di denunce o compiacimento.
Scrivere con la luce che c’è fuori e con il buio che abbiamo dentro. Esercizi di etnologia soggettiva per riattivare la percezione: l’idea guida è che dove si pensa che non c’è niente in realtà c’è sempre qualcosa.
La paesologia va dietro le meraviglie del mondo esterno: scoprire come ci si sente in un paese sapendo che ogni paese è diverso da tutti gli altri, scoprire che il nostro corpo è un estraneo, servire la poesia piuttosto che servirsene, sentire che la vita non è tensione verso un fine trascendente, ma tempo che passa e ci chiama a ritrovarci assieme ad altri gioiosamente, pur sapendo che ognuno è dentro un suo esilio implacabile e ogni lietezza è provvisoria.
Io sono in mezzo al corpo, in mezzo allo spavento e all’incanto di stare al mondo. Il corpo sta nella luce, il corpo prende umori da fuori e ne produce di suoi, li prende dai demoni, dalla polvere di stelle depositata sul fondo delle vene, li prende dall’aria che abbiamo respirato dieci anni prima, dal bacio che non abbiamo avuto.
Non posso confezionarmi in un discorso preciso, sono a metà tra un comizio e gli occhi di una volpe puntata dai fari, innocenza e intrigo, fare un passo senza sapere come fare il successivo, furia e indugio, oltranza e vaghezza, infiammazione e fuga.
Adesso sono diventato intimamente politico, dal punto della testa dove il pesciolino della morte si dibatte nella sua rete fino al punto in cui il mondo pensa di darsi ordine, fino al punto in cui il mondo ci riguarda il meno possibile. La virata è avvenuta nel corpo, nel corpo si prepara tutto: la scrittura, l’amore e la morte.
Il mio è un cercare casa, sapere che non ne ho una, la casa la cerco in un abbraccio, in una frase. Io sono singolo e solitario, non convergo se non per lampi, per apparizioni. Sono a metà tra la poesia e l’etnologia, non potrei mai essere solo una cosa e l’altra, sono l’intreccio di intimità e distanza, incontrare un luogo e una persona come cose che possono venirmi incontro e che possono lasciarmi: ancora il non trovare casa.
Esco per il sole, per vedere la morte che confeziona il suo vestito sui corpi degli anziani, vedere le panchine, le merendine dentro i bar, la scena del mondo di adesso, quelli che nel bar raschiano i numeri per diventare ricchi.
Tengo la felicità in bocca e la morte vicina all’orecchio.
Accolgo quello che accade in strada, alla televisione, al gabinetto, il colpo di tosse, il fazzoletto in tasca, il sesso, i cani, la luna, e da poco perfino il mare.
Sono sempre intreccio, mai un filo solo.

Franco Arminio , Geografia commossa dell’Italia interna 


Concedetevi una vacanza
intorno a un filo d’erba,
dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia
con il pane e la luce,
con la muta lussuria di una rosa.






Amico fragile



per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità

Fabrizio De André, 18 febbraio 1940 – 11 gennaio 1999


Amico fragile è una canzone completamente autobiografica alla quale Fabrizio è sempre stato molto attaccato, riproponendola in tutti i suoi concerti, con un arrangiamento a volte leggermente modificato (…) Nacque in un momento di rabbia e di alcol, dopo una serata in compagnia di persone con le quali avrebbe voluto discutere di ciò che stava succedendo in Italia in quel periodo; in particolare le dichiarazioni di Paolo VI sull'esistenza del diavolo e sugli esorcismi. La gente insisteva perché lui suonasse anche quella sera; così, evaporato in una nuvola rossa, se ne andò a rintanarsi dove non poteva essere disturbato e compose questa canzone in una sola notte.
È la riflessione sulla "fragilità dei rapporti umani", ma, nello stesso tempo, sulla necessità di averne e quindi sul "senso di vuoto" che nasce quando questi vengono meno o restano superficiali. Il risultato è una dichiarazione di amore-odio di un borghese pentito alla propria gente.

Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva


 








venerdì 10 gennaio 2014

Saudade


Antonio Tabucchi in uno dei suoi ultimi libri, “Viaggi e altri viaggi”, dà una spiegazione cristallina della saudade: sei in un posto bellissimo, magari proprio in rua da Saudade, sopra la cattedrale di Lisbona, con lo spettacolare panorama del Tago di fronte a te. All'improvviso hai una stretta di nostalgia perché sai che questo spettacolo ti mancherà una volta che sarai a casa tua, lontano dalla bellezza di questo posto e di questo momento. Ecco cos'è la saudade: il sentimento di perdita, nostalgia, struggimento al futuro per qualcosa che hai e di cui non riesci a godere appieno perché sai che prima o poi la perderai.



Questa parola, termine chiave di tutta la lingua e la cultura portoghese, impossibile da tradurre in un idioma diverso, riflette uno stato d’animo, un sentimento che appartiene al popolo lusitano, che lo definisce e lo imprigiona allo stesso tempo.
Tradizionalmente, la saudade è associata alla malinconia causata dal ricordo di un bene del quale si è privati; al dolore provocato dall’assenza di qualcuno o dell’oggetto amato; al ricordo dolce e simultaneamente triste di una persona a noi cara; alla nostalgia, o come suggerisce Tabucchi, al “desìo” dantesco, «che nello strazio reca una tenera dolcezza». Qualcosa di intimamente legato al passato, dunque. Ma non solo, la saudade è qualcosa di più complesso. Come disse Manoel de Oliveira, «significa che l’armonia si realizza con l’aiuto dei sentimenti contrari». (…) viene voglia di tradurla con “speranza”. Una speranza metafisica, filosofica, religiosa nel senso più ampio. Come una speranza dell’al di là, di un’altra vita, come l’evocava Nietzsche, la speranza in un futuro che non conosciamo. Qualcosa che sta tra la disperazione che si prova nel mondo e la terribile voglia di vivere»
(http://www.uzak.it/)





Biblioanimali



Di tutti gli animali che vivono tra le pagine dei libri il verme disicio è sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia. Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole o il farfalo, piccolo imenottero che mangia le doppie con preferenza per le "emme" e le "enne", ed è ghiotto di parole quali "nonnulla" e "mammella". Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico. Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba del solo verbo "elìcere". Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è molto scaduto d'uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno. Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L'apocòpio; succhia la "e" finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell'Ottocento ne esistevano, milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta. Ma come dicevamo all'inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un'altra, e mette quest'ultima al posto della appena. Sono spostamenti minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com’era prima dell'augurio del verme disicio. Così il verme agisca perché, se per istinto della sua accurata natura o in odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina dove è passato il quattro disicio.

Stefano Benni, da Il bar sotto il mare




mercoledì 8 gennaio 2014

Mujica


José Pepe Mujica è un mito. In un mondo in cui la gente si scanna per il potere, per l’accumulo di beni materiali, lui, Presidente dell’Uruguay, si trattiene solo 485 dollari dello stipendio per vivere e destina gli altri 7500 alla beneficenza. Vive di poco, anzi di pochissimo, in una vecchia fattoria senza neppure l’acqua corrente, ma solo l’acqua del pozzo. È vegetariano, è sposato, ha un cane. Se non fosse per due energumeni che gli montano la guardia all’inizio della proprietà, nessuno potrebbe immaginare che lì ci vive il presidente della nazione. Alla BBC ha dichiarato “Mi chiamano il presidente più povero, ma io non mi sento povero. I poveri sono coloro che lavorano solo per cercare di mantenere uno stile di vita costoso, e vogliono sempre di più. E’ una questione di libertà. Se non si dispone di molti beni allora non c’è bisogno di lavorare per tutta la vita come uno schiavo per sostenerli, e si ha più tempo per se stessi”. Mujica ha un passato di sinistra nei Tupamaros, un famoso gruppo di combattenti che si ispirava negli anni 60/70 del secolo scorso alla rivoluzione cubana. Per la sua fede ha trascorso 14 anni in carcere.
[È qualunquista fare un raffronto tra Mujica ed il nostro comunista  migliorista Napolitano, che vive al Quirinale e guadagna 239.192 euro all’anno, aumentati di 8.835 euro nell’anno in corso?] 
Mujica ha pronunciato a braccio alla Conferenza delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile Rio+20, il 21 giugno 2012, un discorso rivoluzionario, come solo i grandi uomini sanno pronunciare, in cui ha denunciato l’assurdità del mondo in cui viviamo. 
Veniamo alla luce per essere felici. Perché la vita è corta e se ne va via rapidamente. E nessun bene vale come la vita, questo è elementare. Ma se la vita mi scappa via, lavorando e lavorando per consumare un plus e la società di consumo è il motore, perché, in definitiva, se si paralizza il consumo, si ferma l’economia, e se si ferma l’economia, appare il fantasma del ristagno per ognuno di noi. Questo iper consumo è lo stesso che sta aggredendo il pianeta. I vecchi pensatori – Epicuro, Seneca o finanche gli Aymara – dicevano: povero non è colui che tiene poco, ma colui che necessita tanto e desidera ancora di più e più. Queste cose che dico sono molto elementari: lo sviluppo non può essere contrario alla felicità. Deve essere a favore della felicità umana; dell’amore sulla Terra, delle relazioni umane, dell’attenzione ai figli, dell’avere amici, dell’avere il giusto, l’elementare. Precisamente. Perché è questo il tesoro più importante che abbiamo: la felicità!

(da ilfattoquotidiano.it)


Dall'intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica:

"La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere."  









Lost my shape








martedì 7 gennaio 2014

Gli imperdonabili



La passione della perfezione viene tardi. O, per meglio dire, si manifesta tardi come passione cosciente. Se era stata una passione spontanea, l'attimo, fatale in ogni vita, del «generale orrore» del mondo che muore intorno e si decompone, la rivela a se stessa: sola selvaggia e composta reazione.
In un'epoca di progresso puramente orizzontale, nella quale il gruppo umano appare sempre più simile a quella fila di cinesi condotti alla ghigliottina di cui è detto nelle cronache della rivolta dei Boxers, il solo atteggiamento non frivolo appare quello del cinese che, nella fila, leggeva un libro. Sorprende vedere altri azzuffarsi a sangue, in attesa del loro turno, sul preferito tra i carnefici operanti sul palco. Si ammirano i due o tre eroi che ancora lanciano vigorose fiondate all'uno o all'altro carnefice imparzialmente (poiché è noto che di un solo carnefice si tratta, se anche le maschere si avvicendino). Il cinese che legge, in ogni modo, mostra sapienza e amore alla vita.
E’ prudente dimenticare che, secondo la cronaca, quell’uomo dovette a ciò la sua testa: l'ufficiale tedesco di scorta ai condannati non resse alla sua compostezza e gli fece grazia. E’ decente ritenere le parole che il cinese proferì, interrogato, prima di perdersi tra la folla: «Io so che ogni rigo letto è profitto». E’ lecito immaginare che il libro che egli teneva tra le mani fosse un libro perfetto.

Cristina Campo, Gli Imperdonabili










 

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