sabato 24 dicembre 2016

L'uomo che dice No




Un vecchio amico e io siamo soliti discutere da anni, tra un bicchiere e l’altro, sulle caratteristiche che dovrebbe avere la nostra società perfetta; alla fine, dopo molte discussioni, siamo giunti alla conclusione che in quella repubblica ideale ci sono soltanto tre personaggi imprescindibili: un maestro, un medico e un uomo che dice «No». Il maestro è colui che insegna a vivere; il medico è colui che insegna a morire; l’uomo che dice «No» è colui che preserva la dignità collettiva: è l’uomo che, nelle situazioni limite, nei momenti più rischiosi, quando si decide il destino della società ed è più difficile conservare i nervi saldi e tutti o quasi tutti perdono il senso della realtà e dicono Sì per un errore di valutazione e chi non lo fa non osa dire «No» per timore di essere rifiutato dalla maggioranza, in quel momento, dopo essere andato in piscina e avere riflettuto senza fretta e con la massima serietà ed essere giunto a una conclusione, ha il coraggio di dire «No», tranquillamente, senza alzare la voce, con la stessa ostinata impavidità e la stessa mancanza di gestualità e la stessa discrezione inflessibile e la stessa dignità statuaria con cui Kafka disse «No» quel giorno del 1912, nel bel mezzo della battaglia tra la polizia e i manifestanti.
Quest’uomo non vuole erigersi a esempio per nessuno né dare lezioni a nessuno; e non dice «No» per il piacere o il capriccio o la vanità della contraddizione, né è un conformista dell’anticonformismo, né dal suo rifiuto ottiene qualche reddito economico e professionale: semplicemente ha il coraggio di pensare con lucidità e di agire in accordo con ciò che pensa. Quest’uomo è il nemico del popolo di Ibsen, l’uomo in rivolta di Camus, in molti sensi il protagonista dei grandi romanzi di Kafka. Quest’uomo incarna la dignità dell’intellettuale.

Javier Cercas, «L’uomo che dice No»






Christmas presents










giovedì 22 dicembre 2016

Laggiù





Una sera d’estate del 2030, nel giardino di un ospizio, due vecchi incominciarono a ricordare.

Da piccolo credevo che le albicocche secche fossero orecchie, e mi domandavo a quali infelici fossero state tagliate. Quando fui costretto ad assaggiarne una, prelevandola da una composizione natalizia di datteri e frutta candita, mi dissi “Di questo dunque sanno le orecchie”.

Io invece credevo in una polvere magica che, disciolta nell’acqua e bevuta, avrebbe preservato dai brutti sogni: e sempre fiducioso ne bevvi. Dopo molt’ anni, chiesto a mia madre di mostrarmela, mi sentii rispondere che, una volta vista nel suo stato naturale, la polvere avrebbe perso il suo potere. Mai più ne dimandai.

Io avevo un padre che nell’orbita si incastrava una sfera di ceramica riproducente alla perfezione un bulbo oculare: presentandosi a me simulava sgusciarsela via, quindi la riponeva nel taschino. Io scappavo urlando: “L’occhio no! L’occhio no!”

Io avevo un padre che con una piccola incisione riusciva a togliere la buccia di un’arancia lasciandola intera: dopodiché la intagliava in guisa di maschera mostruosa, e spente tutte le luci vi metteva dentro un mozzicone di candela acceso. Osservando sgomento la tremenda sembianza, sentivo una voce cavernosa che diceva: “Eccomi, sono la Faccia, e sono venuto per te”.

Io avevo un nonno che un giorno mi raccontò la storia di Enrico VIII che ammazzava tutte le sue mogli. Io capii “di un ricottaro”, e per molti anni, ogni volta che mangiavo della ricotta, aspettavo di conoscere i sintomi dell’avvelenamento.

Anch’ io avevo un nonno, che una domenica mi portò a San Siro a vedere la mia prima partita di calcio. Nell’intervallo mi spiegò che il Milan non riusciva a segnare perché la Fiorentina aveva Robotti. Io capii “i robot”, e guardai il secondo tempo cercando di cogliere nei movimenti dei giocatori viola la meccanicità degli automi. Tornando a casa mi sembrava già un miracolo che la partita fosse finita zero a zero, noi contro l’indistruttibile acciaio!

Io, quando oltrepassavo la boa, mi aspettavo di essere maciullato da un pescecane. In questo modo mi sono avvelenato dieci anni di bagni, fino al giorno in cui scopersi che bastava andare sott’ acqua e dirgli “Ovunque tu sia, sappi che io sono un pesce come te”.

Io invece, quando stavo sugli scogli, avevo il terrore che l’amo di un pescatore distratto mi agganciasse un occhio, o la lingua, o un orecchio, e me li strappasse via come esca pei pesci.

Io avevo un padre che mi portava a vedere la chiesa di San Bernardino alle Ossa, e l’edicola del Fopponino piena di teschi con una scritta latina che tradotta diceva: “Non deriderci, o passante, perché un giorno sarai come noi”. Io li guardavo a lungo e pensavo: “No, non vi derido”.

Il mio, invece, mi spedì da Palermo una cartolina della Cripta dei Cappuccini, e da Torino la fotografia di una mummia del Museo Egizio. Vedutele nella mia camera, la nonna esclamò: “Son cose da far vedere a un bambino?”, e dentro di me io dissi: “Evidentemente sì”.

Io, una delle primissime volte in cui feci una telefonata, mi convinsi che se dall’altra parte non rispondevano forse voleva dire che erano morti. Da allora, per tutta la vita, non riesco ad arrivare al terzo squillo senza pensare: “Deve essere successo qualcosa di tremendo”.

Ed io, quando da grandicello vidi L’esorcista, La cosa, La casa, Lo squalo e Alien, non vidi nulla che non mi fosse familiare, molto familiare da sempre.

Io ero convinto che tutto il visibile – persone, automobili, rondini, fili della luce, sputi per terra – fosse una rappresentazione inscenata attorno a me allo scopo di studiare il mio comportamento. Sentendomi osservato, mi davo contegno per non dare a vedere che mi ero accorto di tutto: cavia consapevole, mi dicevo, cavia inutile, dunque cavia da eliminare.

Io, quando una persona mi sorrideva un po’ troppo affettuosamente, sospettavo che non fosse vera: la Finta Madre, il Finto Cartolaio. E insieme al terrore, mi prendeva anche pena per il destino degli originali.

Io una volta andai al cinema con i miei genitori a vedere Il Vampiro di Dreyer. All’ ultimo momento, pensando che mi sarei spaventato troppo, scelsero La nave bianca di Rossellini. Io, che non mi ero reso conto del cambio, aspettai invano per tutto il film l’apparizione del mostro. Per molti giorni non mi diedi pace per non essere stato capace di riconoscerlo fra tutti quei marinai.

Io avevo un nonno che faceva centinaia di donnine nude di argilla. Per le proporzioni del corpo si regolava sul canone di Policleto, ma siccome aveva trascritto male una misura tutte le donne gli venivano con le gambe troppo corte e il sedere basso. Guardando quei sederi sospirava sconsolato, e se mio padre o mio zio gli suggerivano di modellarli più in alto ribatteva: “Volete saperne più di Policleto?”. Quel che ne capii io, era che Policleto doveva essere stato un antico nemico del nonno.

Mio padre, una volta in cui ero reticente su una certa questione, mi disse: “Sappi che tutto quello che vivi io l’ho già vissuto quando avevo la tua età, per cui non c’è nulla nella tua mente che non mi sia noto”. Da quel giorno mi sentii così evidente ai suoi occhi, che ogni commento o confessione diventavano inutili. Fu così che la mia reticenza divenne assoluta.

E io, una volta in cui non riuscivo a dormire, mi alzai dal letto e andai di nascosto a origliare alla porta della stanza dove gli adulti stavano chiacchierando. Udii pronunciare nomi che non conoscevo, sentii nuovi toni di voce, capii che la mia vita e la loro erano cose separate, e che di giorno ci si incontrava solo per caso.

Io, alle scuole medie, andavo spesso nella biblioteca scolastica a prendere a prestito dei libri. Un giorno il bibliotecario si sbagliò, e invece della Scoperta di Troia di Heinrich Schliemann mi diede un librino intitolato Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Non esiste cifra al mondo che potrebbe mai risarcirmi di quell’errore.

Io, in campagna, avevo una balia che dormiva nella mia camera. Dopo un po’ ch’eravamo al buio chiedevo: “Dirce, ci sei?”, e mi sentivo rispondere: “No, non ci sono”. Perplesso, insistevo: “Ma era la tua voce”, e lei, spietata e poetica insieme: “Non sono la Dirce, sono una vocina lontana lontana che viene dal bosco…”. Ed io, che sapevo e non sapevo, che credevo e non credevo, dovevo affrontare la notte così, come una prova.

Mio padre conosceva un elettricista che aveva perso un pollice nel portellone di un aereo. Quando venne a pranzo da noi, accortosi dei miei sforzi per non guardargli la mutilazione, mi mostrò la mano integra con il pollice nascosto dietro le altre dita, poi lo fece comparire di scatto. Non capiva che proprio in quel modo, suggerendomi di poter fare lo stesso con l’altra mano, divenne veramente per me un uomo mostruoso.

Io, quando mia madre mi spiegò che “mostro”, per gli antichi, voleva dire prodigio, e perfino miracolo, mi sentii per un attimo placato, come se vivessi in un mondo migliore.

Il libro fondamentale della mia educazione fu Pierino Porcospino, e siccome mi succhiavo il pollice il mio incubo era il Sartore:
S’apre la porta ed il sartore
entra a gran salti pien di furore.
Col forbicione, zig zag, recide
al bimbo i pollici; il bimbo stride.

Anche il mio libro era Pierino Porcospino, e pur essendo un mangione soffrivo per il povero Gasparino, che morì di consunzione perché continuava a dire “No, no, no, la minestra io non la vo’”, e sulla tomba misero una zuppiera.

Adesso però, prima di rientrare, raccontiamoci qualcosa di ameno.

Va bene. Quando ero di buon umore, mio padre mi diceva: “Ciao porco”, oppure: “Ciao porcello”, oppure: “Ciao porcottino”. Rimasto solo mi dicevo: “Si, sono un porco”, e me la ridevo.

Io, quando facevo merenda con il latte, mettevo nella scodella tanti pezzi di pane fino a che il cucchiaio rimanesse in piedi da solo. Se entrava in cucina, mio padre diceva: “Che bel paciaròt!”, e me ne rubava un po’.

Non c’è stato molt’ altro, nella vita.
No, è quasi tutto laggiù.









mercoledì 21 dicembre 2016

Caro ministro




Lettera aperta di una ricercatrice italiana emigrata in Francia


Caro Ministro Poletti,
le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano. (...) le parole sono importanti, e lei non parla bene.
Non da oggi.
A mia memoria da quando il 29 novembre 2014 iniziò a dare i numeri sul mercato del lavoro, dimenticandosi tutti quei licenziamenti che i lavoratori italiani, giovani e non, portavano a casa la sera.
Continuò a parlare male quando in un dibattito in cui ci trovammo allo stesso tavolo dichiarò di essere “il ministro del lavoro per le imprese”, era il 18 aprile del 2016.
Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più, non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci.
Parlo dei voucher, Ministro.
(…) proprio ieri l’Inps ha reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando lei è ministro, ne sono stati venduti 265.255.222: duecentosessantacinquemilioniduecentocinquantacinquemiladuecentoventidue.

Non erano pistole, è sfruttamento.

Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa. È un ragazzo di ventuno anni, non ha diritto alla malattia, a niente, perché faceva il saldatore a voucher. Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi.
Quelli che sono rimasti sono coloro che per colpa delle politiche del suo governo e di quelli precedenti si sono trovati in pochi anni da generazione 1000 euro al mese a generazione a 5000 euro l’anno.
(...)
Sono gli stessi che non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano, perché il suo governo come altri che lo hanno preceduto, invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa.

È lo stesso governo che spende lo zero percento del Pil per il diritto all’abitare.
È lo stesso governo che si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità.

Ma badi bene, non sono una “redditista”, solo che a fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà.
Ma vorrei essere chiara, il diritto al reddito non è sostituibile al diritto alla casa, sono diritti imprescindibili entrambi.

E le vorrei sottolineare che non è colpa dei nostri genitori se stiamo messi così, è colpa vostra che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci.
I colpevoli siete voi che pensate si possano spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio- tanto ci sono i voucher- e poi un anno dopo approvate anche la riduzione delle tasse sui profitti. Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci perché, mal che vada, avremo un tirocinio con Garanzia Giovani.
I colpevoli siete voi che non credete nell’istruzione e nella cultura, che avete tagliato i fondi a scuola e università, che avete approvato la buona scuola e ora imponete agli studenti di andare a lavorare da McDonald e Zara.
Sa, molti di quei centomila che sono emigrati lavorano da McDonald o Zara, anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati.

Ma il problema non è neppure questo, o quanto meno non il principale.
Il problema, ministro Poletti, è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis.
A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti. E lo fa nel preciso istante in cui lei dichiara che dovreste
“offrire loro l'opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare”.

La cosa assurda è che non è chiaro cosa significhi per lei capacità, competenze e saper fare.
Perché io vedo milioni di giovani che ogni mattina si svegliano, si mettono sul un bus, un tram, una macchina e provano ad esprimere capacità, competenze, saper fare. Molti altri fanno la stessa cosa ma esprimono una gran voglia di fare pure se sono imbranati. Fin qui però io non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri.

Non è chiaro, Ministro Poletti, cosa sia per lei un’opportunità se non questa cosa qui che rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza. Eppure la cosa che mi indigna di più è il pensiero che l’opportunità va data solo a chi ha le competenze e il saper fare.

Lei, ma direi il governo di cui fa parte tutto, non fate altro che innescare e sostenere diseguaglianze su tutti i fronti: dalla scuola al lavoro, dalla casa alla cultura, e sì perché questo succede quando si mette davanti il merito che è un concetto classista e si denigra la giustizia sociale.
Perché forse non glielo hanno mai spiegato o non ha letto abbastanza i rapporti sulla condizione sociale del paese, ma in Italia studia chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara.
(...)
Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto.
(...)
Se nel frattempo vuole sapere quali sono le nostre proposte per il mondo del lavoro, ci chiami pure. Se vi interessasse, chissà mai,
ascoltare.

Marta Fana, Ricercatrice italiana a Parigi

[http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/12/20/news/caro-poletti-avete-fatto-di-noi-i-camerieri-d-europa-1.291709?ref=HRBZ-1]

 

 

 

 



martedì 20 dicembre 2016

Una di noi




Pubblicato il 8 dicembre 2016 
di Alexik


Non volevo ingannarvi. L’ho detto solo per non morire.
Ero terrorizzata dalle loro pietre aguzze, dalle loro facce feroci, decise ad uccidermi perché ero tornata a giocare nell’erba.
So che non avrei dovuto farlo, ma era così potente il richiamo del grano immaturo. Odorava di infanzia e di libertà, di giorni felici passati a rotolare nei campi. Prima che mi chiudessero fra quelle mura perché, come disse mia madre, “era ora che mi sudassi il mangiare”. Fu lei a consegnarmi, che ero ancora bambina, a portarmi a servizio dopo avermi lavato di dosso la terra e le spighe.
All’inizio l’abbandono mi bruciava nel petto. Stavo malissimo, chiusa nella mia solitudine, in mezzo a quei vecchi indifferenti e severi.
Stavo malissimo, non solo per la fatica. Quel luogo mi metteva a disagio. Vi risuonava un silenzio sinistro, interrotto dal mormorio cadenzato di parole terribili.

soltanto nelle città di questi popoli
che il Signore tuo Dio ti dà in eredità
non lascerai in vita alcun essere che respiri
ma li voterai allo sterminio
come il Signore tuo Dio ti ha comandato di fare
(1)

Così recitavano gli anziani, assorti sulle pergamene.
Dicevano che la terra che calpestavo, la terra della mia gente, era stata irrigata col sangue.
Che l’eccidio dei suoi antichi abitanti (profezia per quelli futuri) era il frutto del volere di un dio.
Con le ginocchia dolenti, mentre strisciavo lo straccio sul pavimento di pietra, rabbrividivo ascoltando.

.Come il popolo udì il suono della tromba
ed ebbe lanciato un grande grido di guerra,
le mura della città crollarono.
Il popolo allora salì verso la città

Votarono poi allo sterminio,
passando a fil di spada ogni essere che era nella città,
dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio
e perfino il bue, l’ariete e l’asino
(2)

Votò lo sterminio di Gerico, il mio popolo/esercito. Portò lo sterminio a Makkeda, Libna, Lachis, Eglon, Ebron e Debir (3). Diede la morte ai loro re e ad ogni essere vivente che era in esse, per fare spazio a una nuova stirpe e a un nuovo dio.
Io appartenevo alla genia dei vincitori. Avrei dovuto andarne fiera.
Invece le urla delle donne di Madian (4) venivano a popolare i miei incubi. Odiavo e temevo i loro assassini, dal silenzio della mia impotenza di ragazzina, di femmina e serva. Giurai a me stessa che se avessi mai, in futuro, partorito un figlio maschio lo avrei allevato nel rifiuto di quel credo spietato. Dovevo impedire che diventasse come loro. Intanto, a carponi sul pavimento di pietra, mi stringevo le orecchie fra le mani per non sentire e mi rintanavo negli angoli più oscuri, tentando di sparire alla vista di quegli uomini e del loro dio sanguinario (5). Tanto non mi avrebbero notata comunque. Per tutti loro una serva era pari a un oggetto, o forse a un animale.
Faceva eccezione una voce. L’unica giovane, l’unica amica.

Come son belli i tuoi piedi
nei sandali, figlia di principe!
Le curve dei tuoi fianchi sono come monili,
opera di mani d’artista.
Il tuo ombelico è una coppa rotonda
che non manca mai di vino drogato.
Il tuo ventre è un mucchio di grano,
circondato da gigli…

Il figlio del sacerdote più anziano scandiva bene le sillabe in modo che potessi sentirlo. Da allora cominciammo a incrociarci più spesso, in modo sempre meno casuale.
Per il resto, la vita era solo fatica. Solo di notte, ogni tanto, nei sogni, tornavo a giocare nei campi.
I giorni si avvicendarono uguali finché a tredici anni il sangue mi sgorgò fra le cosce. Pensai a una ferita. Non avevo una madre a spiegarmi cosa stava succedendo al mio corpo. Turbata, corsi dagli adulti del tempio per chiedere aiuto. Ricordo il ribrezzo con cui si ritrassero. Il mio sangue profanava la sacralità di quel luogo.

Mi vendettero subito. All’asta come sposa, come un mulo al mercato.
Il mio nuovo padrone, il miglior offerente, fu un vecchio collerico.
Nella sua casa la fatica era quella di prima, ma amavo quelle pareti di terra rossa, l’odore del legno tagliato e, soprattutto, quella porta aperta sui coltivi. Da lì scivolavo ogni notte, in silenzio, per correre incontro al mio angelo. Per prendergli le mani, e condurlo a giocare nell’erba.
So bene che era solo un ragazzo, che non aveva né aureola e né ali.
Ma a me piaceva pensarlo così, radioso come gli angeli dei salmi.
E così lo descrissi anche ai miei accusatori.

Dicono che fu un sogno di mio marito, la notte prima dell’esecuzione, a salvarmi la vita. Vi garantisco che andò in tutt’altro modo. Quella notte non chiuse occhio, impegnato com’era a gonfiarmi di calci e nerbate per farmi abortire. Sotto i suoi colpi temetti di non arrivare al mattino, rendendo inutile anche il mucchio di pietre.
Fu il sacerdote più anziano a interromperci.
Con la borsa dell’oro veniva a pagarci perché non sporcassimo il nome del figlio. Per sottrarlo alla fine destinata agli adulteri, e perché suo nipote vivesse (per quanto illegittimo, era pur sempre un nipote). Convennero, con mio marito, che sarebbe stato meglio per tutti far finta di credere alla storia dell’angelo.
Gli ressi il gioco, ovviamente, ma vi giuro, non volevo ingannarvi.
Cercavo solo di non farmi ammazzare.
E poi volevo che tutta quella storia finisse. E invece era appena iniziata.

Sono duemila anni, ormai, che vi guardo prostrarvi davanti alle mie statue, invocarmi sgranando un rosario.
Generazione dopo generazione, secolo dopo secolo, milioni di uomini e donne hanno creduto in me. O meglio, a un modello creato da maschi, all’immagine che mi è stata cucita addosso di madre casta e remissiva. In faccia a milioni di donne è stato sbattuto il mio esempio per definirle colpevoli di gioia, di libertà, di sessualità, di intelligenza, di ribellione.
Oggi c’è chi sostiene che io possa apparirvi e parlarvi, e che dalle mie statue scendano lacrime. E in effetti, a vedere come mi hanno utilizzata, mi viene proprio voglia di piangere. Ma se potessi parlarvi davvero, griderei, con tutte le mie forze, che è stata tutta una farsa, tutta una truffa.
E che non sono io, non sono io quella che adorate.
Perché non sono stata né santa, né vergine, né madre di un dio.
Solo una di voi.







      Note:

    1. Deuteronomio, capitolo 20. 

    2. Libro di Giosuè, capitolo 6.

    3. “Così Giosuè battè tutto il paese: le montagne, il Negheb, il bassopiano, le pendici e tutti i loro re. Non lasciò alcun superstite e votò allo sterminio ogni essere che respira, come aveva comandato il Signore, Dio di Israele“. Per i dettagli dei massacri: Libro di Giosuè, capitolo 10. 

    4. Marciarono dunque contro Madian come il Signore aveva ordinato a Mosè, e uccisero tutti i maschi. Uccisero anche, oltre i loro caduti, i re di Madian Evi, Rekem, Sur, Ur e Reba cioè cinque re di Madian; uccisero anche di spada Balaam figlio di Beor. Gli Israeliti fecero prigioniere le donne di Madian e i loro fanciulli e depredarono tutto il loro bestiame, tutti i loro greggi e ogni loro bene; appiccarono il fuoco a tutte le città che quelli abitavano e a tutti i loro attendamenti e presero tutto il bottino e tutta la preda, gente e bestiame…. Mosè si adirò contro i comandanti dell’esercito, capi di migliaia e capi di centinaia, che tornavano da quella spedizione di guerra. Mosè disse loro: «Avete lasciato in vita tutte le femmine? Proprio loro, per suggerimento di Balaam, hanno insegnato agli Israeliti l’infedeltà verso il Signore… Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che si è unita con un uomo; ma tutte le fanciulle che non si sono unite con uomini, conservatele in vita per voi“. Libro dei Numeri, capitolo 31.

    5. Per un approfondimento sull’ebraismo bellico consiglio il bellissimo libro di Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale, Odradek, 2008, in particolare il capito 5.1










lunedì 19 dicembre 2016

Intolleranze / Lattosio




Il lattosio è uno zucchero complesso, chiamato disaccaride. È contenuto principalmente nel latte vaccino e nei prodotti che lo contengono. In condizioni normali, l'enzima lattasi contenuto nell'intestino tenue scinde il lattosio in due componenti più semplici, glucosio e galattosio, due zuccheri. Se sei intollerante al lattosio, vuol dire che al tuo intestino manca la lattasi e non può digerire il lattosio come dovrebbe.
Esistono due tipi di intolleranza al lattosio, l'intolleranza primaria e l'intolleranza secondaria.
L'intolleranza primaria è di tipo genetico : ogni cellula del nostro corpo contiene DNA, la molecola con le istruzioni della vita. Il DNA stabilisce quanta lattasi bisogna produrre e per quanto. Tuttavia gli intolleranti al lattosio hanno una variazione genetica che prescrive al corpo di smettere di produrre lattasi.
Perché accade questo? Dopo lo svezzamento il nostro corpo pensa di non avere più bisogno di latte e smette di produrre le sostanze necessarie a digerirlo o ne produce di meno. Alla nascita, siamo tutti capaci di digerire il lattosio perché produciamo la lattasi. Con lo sviluppo, alcuni soggetti continueranno a produrre lattasi, altri, geneticamente predisposti, potrebbero smettere di produrla, diventando intolleranti al lattosio.
L'intolleranza secondaria invece è di tipo patologico. Alcune malattie e disturbi intestinali, come per esempio infezioni, irritazioni o allergie possono danneggiare la parete intestinale, riducendo o azzerando la produzione di lattasi.




In Italia l'intolleranza al lattosio interessa in media il 40-50% della popolazione, con punte di prevalenza particolarmente elevate nelle popolazioni meridionali potendo raggiungere il 70% in Campania e Sicilia. 









domenica 18 dicembre 2016

Profughi




Piegati da un peso 
che non sempre si vede
avanzano nel fango o nella sabbia del deserto,
chini, affamati,

uomini di poche parole dai pesanti caffettani,
adatti a tutte le stagioni,
donne vecchie dai volti sciupati
che portano qualcosa, un neonato, una lampada
- un ricordo- oppure l'ultimo tozzo di pane.

Può essere la Bosnia, oggi,
la Polonia nel settembre '39, la Francia
otto mesi più tardi, la Turingia nel '45,
la Somalia, l'Afghanistan o l'Egitto.

C'è sempre un carro, o almeno un carretto,
colmo di tesori (il piumino, la tazza d'argento
e il profumo di casa che presto svanisce),
un'auto senza benzina abbandonata nel fosso,
un cavallo (che sarà tradito), la neve, molta neve,
troppa neve, troppo sole, troppa pioggia,

e quel caratteristico curvarsi,
come verso un altro pianeta, migliore, 
con generali meno ambiziosi,
meno cannoni, meno neve, meno vento,
meno Storia (purtroppo un simile pianeta
non esiste, resta solo il curvarsi). 

Tascinando i piedi,
vanno lentamente, molto lentamente,
verso il paese da nessuna parte,
verso la città nessuno,
sul fiume mai.

Adam Zagajewski, I profughi


 Aleppo, Siria







L'arte della vita




La nostra vita è un'opera d'arte – che lo sappiamo o no, che ci piaccia o no. Per viverla come esige l'arte della vita dobbiamo – come ogni artista, quale che sia la sua arte – porci delle sfide difficili (almeno nel momento in cui ce le poniamo) da contrastare a distanza ravvicinata; dobbiamo scegliere obiettivi che siano (almeno nel momento in cui li scegliamo) ben oltre la nostra portata, e standard di eccellenza irritanti per il loro modo ostinato di stare (almeno per quanto si è visto fino allora) ben al di là di ciò che abbiamo saputo fare o che avremmo la capacità di fare.
Dobbiamo tentare l'impossibile. E possiamo solo sperare –senza poterci basare su previsioni affidabili e tanto meno certe– di riuscire prima o poi, con uno sforzo lungo e lancinante, a eguagliare quegli standard e a raggiungere quegli obiettivi, dimostrandoci così all'altezza della sfida. L'incertezza è l'habitat naturale della vita umana, sebbene la speranza di sfuggire ad essa sia il motore delle attività umane. Sfuggire all'incertezza è un ingrediente fondamentale, o almeno il tacito presupposto, di qualsiasi immagine composita della felicità. È per questo che una felicità «autentica, adeguata e totale» sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarci a esso.

Zigmunt Bauman, L'arte della vita







giovedì 15 dicembre 2016

martedì 13 dicembre 2016

Governi popolari
















La (semplice) ricerca che non fanno





Il Daraprim è un farmaco da romanzo: essenziale, ricercatissimo, molto costoso. Un anno fa ha visto il prezzo salire vertiginosamente, da 13 dollari per pillola a 750, in una sola notte, quando il giovane imprenditore statunitense Martin Shkreli, che con la sua Turing Pharmaceutical aveva comprato i diritti sulla vendita della molecola, ne aveva arbitrariamente modificato il prezzo.
Il farmaco è usato per trattare persone con sistemi immunitari deboli, come le persone che vivono con l’Hiv, i pazienti di chemioterapia e le donne incinte, e figura nella lista di medicine essenziali dall’Organizzazione Mondiale della Sanità; l'intervento finanziario sulla vendita del medicinale in commercio da 62 anni ha mandato in crisi migliaia di pazienti che ne facevano un uso quotidiano e che di punto in bianco si sono visti precludere la possibilità di acquistarlo per via del prezzo.

Un gruppo di giovanissimi studenti australiani della Sydney Grammar School ha provato a sintetizzare nel laboratorio dell'istituto l'ingrediente attivo del Daraprim. Hanno cominciato con 17 grammi del materiale di base, detto 2.4-chlorophenyl acetonitrile, disponibile online a poco prezzo; per produrre il Daraprim hanno operato per prove ed errori in diverse fasi, non potendo seguire il percorso brevettato che comporta l’uso di reagenti pericolosi. E hanno trovato una procedura innovativa per passare dal composto base al prodotto finale. Hanno ottenuto 3,7 grammi di pirimetamina. Per sintetizzare dosi più elevate dell'ingrediente attivo è necessaria l'approvazione da parte di Shkreli, altrimenti l'Università dovrebbe finanziare lo studio clinico per intero, che comporterebbe una spesa di milioni: ecco perché nessun'altra azienda farmaceutica ha mai annunciato di aver ricreato il farmaco per l'AIDS. 

L'obiettivo degli studenti però non era quello di vendere le pillole ma di mostrare al mondo la facilità con cui è possibile creare lo stesso medicinale ad un costo nettamente inferiore. La professoressa che ha seguito il lavoro dei ragazzi ne ha confermato la purezza analizzandolo in uno spettrografo all’università. E i giovanissimi scienziati - che hanno anche postato sul web la ricetta per ricreare le pillole di modo che tutti gli scienziati possano riprodurre e diffondere questo farmaco salva vita - hanno ricevuto i complimenti dell’Australian Chemical Institute, al simposio di chimica organica a Sydney dove hanno presentato i risultati delle loro ricerche. Il farmaco, hanno dichiarato «potrebbe essere messo sul mercato a soli due dollari» 

 

(dal Corriere.it)